Lunedì 28 Ottobre 2024
CESARE DE CARLO
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Eleanor, la First Lady che governò l’America

Sessant’anni fa moriva la moglie di Roosevelt, il presidente del New Deal e della conferenza di Yalta. Paladina dei diritti civili e icona gay

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di Cesare De Carlo

Le persone – sentenziava Eleanor Roosevelt – si dividono in tre categorie: quelle che parlano di altre persone, quelle che parlano di fatti, quelle che parlano di idee. Menti piccole, menti mediocri, menti grandi. Ovviamente lei si considerava una mente grande. E a ragione. In un’epoca in cui una donna era vista come sposa obbediente, madre premurosa, e nella upper class maestra di buone maniere, la moglie di Franklin Delano era più di un’eccezione. Era una rivoluzione. E non perché consolidasse la presunzione di una dinastia per la quale la Casa Bianca era un affare di famiglia. Lo zio Theodore presidente, il cugino Franklin marito e presidente, lei stesso cognome, First Lady dal 1933 al 1945. Nessun’altra tanto a lungo. Eleanor pensava in grande. E agiva in grande forzando e sfruttando i privilegi dell’establishment democratico. Se lo poteva permettere.

Apostola della parità di genere, antesignana delle battaglie politiche e sociali che più tardi negli anni Sessanta, con Lyndon B. Johnson, si sarebbero tradotte nella Great Society, cioè nel progetto che avrebbe dovuto sradicare le ingiustizie sociali. Se oggi se ne parla, nel 60° anniversario della sua morte, è perché dietro il New Deal c’era lei e perché senza di lei il marito fedifrago non avrebbe potuto guidare la nazione prima e durante la seconda guerra mondiale. Anzi c’è da scommettere che se a Yalta, nel febbraio 1945, ci fosse stata lei e non lui, Stalin non ne sarebbe uscito con la satellitizzazione dell’Europa dell’est. Franklin D. in sedia a rotelle era un pallido fantasma. Sarebbe morto due mesi dopo. E da allora mai più di due mandati presidenziali. Franklin D. Roosevelt invece di mandati ne aveva avuto quattro. L’ultimo nel novembre ’44. Fu lei, Eleanor, a curare la campagna elettorale. Come e più delle precedenti tre.

Franklin era stato colpito dalla poliomielite a 39 anni. Era paralizzato dalla vita in giù. La sua carriera sembrava terminata. E invece Eleanor era la sua voce e le sue gambe. Lo portò prima al governatorato dello Stato di New York e poi alla Casa Bianca. Comune ambiziosa aspirazione: un New Deal, un Nuovo Accordo sociale con cui rimontare la Grande Depressione. Il suo frenetico attivismo convinse l’elettorato americano ad affidarsi a un uomo in carrozzella. In realtà si affidava a una partnership matrimoniale, un po’ quel che sarebbero stati più tardi Bill e Hillary Clinton. L’America malata guidata da un uomo malato reagì a Pearl Harbor (7 dicembre 1941) allestendo in sei mesi due eserciti, uno per l’Europa e l’altro contro il Giappone, producendo decine di migliaia di aerei, carri armati, navi, progettando e costruendo le prime atomiche senza le quali il Giappone non si sarebbe arreso e gli americani avrebbero dovuto conquistarlo isola per isola. Con costi umani spaventosi.

Fu lei, Eleanor, a sovrintendere al grande sforzo bellico. Gli americani producevano armi, alimenti, medicine per loro stessi e per gli alleati. E fu sempre lei a caldeggiare, a guerra finita, quello che sarebbe stato conosciuto come il piano Marshall, il piano della rinascita dell’Europa in macerie. Da queste note si può avere l’impressione di una donna forte, assertiva, disinvolta. Al contrario era una donna fragile, timida, introversa. E complessata. Lei stessa da adolescente si definiva il brutto anatroccolo. In effetti era una stangona non particolarmente affascinante. Nemmeno per il marito, da cui – sorpresa – aveva avuto sei figli. Il marito, pur nelle sue condizioni, ebbe molti affaires con le segretarie.

Lei l’ebbe con un’altra donna, una giornalista dell’Associated Press, Lorena Hickok. La quale negli anni Settanta, prima di morire, lasciò ai National Archives le lettere d’amore della First Lady. Aveva distrutto le più erotiche e le più esplicite, scrive Lillian Faderman in To Believe in Women: "Fu un amore intenso e di lunga durata". Precorritrice anche in questo. A quei tempi le frequentazioni omosessuali erano discriminanti e vergognose. Oggi Eleanor è una bandiera dei movimenti LGBTQ. Lo è anche nell’ascesa di un femminismo che ha ormai raggiunto e per certi versi capovolto il predominio maschilista. Lo è per il riscatto razziale. In primo luogo della minoranza afroamericana, come si dice oggi, che mai avrebbe immaginato di vedere un giorno uno di loro eletto alla Casa Bianca. Lo è infine per i “liberals“ del partito democratico (la sinistra) che a lei si richiamano nel loro ritornante dirigismo. Più Keynes che Milton Friedman. Ma la prosperità americana è dovuta a quel capitalismo che in Europa viene definito selvaggio.

Oggi la stessa Eleanor faticherebbe a riconoscere il partito democratico che non è più lo scudo dei ceti meno fortunati. È il partito delle multinazionali e della grande finanza, delle suicide aperture alla Cina comunista. È il partito della cancel culture e della political correctness. È il partito delle élites universitarie che censurano e sopprimono il dibattito delle idee. Insomma non è più il suo partito. E anche l’America non è più la sua, solidale, compatta di fronte alle sfide globali. Oggi l’America è stanca, divisa, sfiduciata. Non più orgogliosa dei suoi valori scolpiti nella Dichiarazione di Indipendenza di Thomas Jefferson. Non più votata all’idealismo missionario di Woodrow Wilson. Non più simbolo di democrazia in un mondo che sembra averla dimenticata.

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