Locarno, 6 agosto – Seduto nella penombra, invecchiato e avvilito, un boss racconta la sua storia. È il disonesto Iago. Anzi, è Edoardo Leo, venti chili in più e”«una fatica bestiale per perderli”, nella sua versione anti-patriarcale di Otello: criminalità romana sempre un po’ debitrice di icone mediatiche, scenografia di litorale lugubre ed essenziale come un Welles ostiense e una lettura precisa, moderna, del capolavoro: “Senza alterare il testo, e traducendolo nel dialetto di un ambiente criminale, ho cercato di raccontare il rapporto tossico maschile con la passione d’amore, vivo oggi come ieri”.
Presentato ieri nella sezione Piazza Grande del Festival di Locarno, in uscita nel 2024 (c’è l’ipotesi del 25 aprile) con Vision Distribution, portandolo prima nelle scuole, sceneggiatura e regia di Leo, col magrebino Jawad Moraqib (Otello) e Ambrosia Caldarelli (Desdemona), "Non sono quello che sono” è prodotto per Groenlandia anche dal Sydney Sibilia della trilogia Smetto quando voglio, ed è anche un buon titolo per questa ambiziosa e motivata svolta nella carriera di Leo, 51 anni.
Una star della commedia apre al tragico. Come è andata?
"È un progetto che inseguo almeno da dieci anni. Cercavo anche l’occasione, a cinquant’anni, per uscire dalla “comfort zone“ dei miei personaggi e dei film di successo. Ho pensato all’Otello quando, molto tempo fa, ho letto l’ennesima notizia: accecato da folle gelosia un uomo uccide la moglie e si suicida. È la sinossi prosciugata di una delle opere teatrali più famose al mondo e triste cronaca di oggi. La vicenda di Otello non ha nulla di romantico, l’amore che porta al gesto estremo, eccetera. Le prospettive sono cambiate".
Come ha lavorato in questo senso?
"Intanto non ho cambiato una parola, a differenza di altre traduzioni per il cinema. E ho temperato la differenza tra Iago il bianco e Otello il “nero“. Appartengono allo stesso mondo culturale e religioso. La comunità criminale che descrivo nelle discoteche, nelle location a Nettuno o negli interni dove si muovono solo loro, come a teatro, riproduce il sistema patriarcale del testo di Shakespeare. La differenza importante oggi è invece la questione dell’empatia del pubblico con Otello”.
Perché è così importante?
"Anche nelle celebri interpretazioni del passato tutti i monologhi di Otello sono costruiti affinché lo spettatore possa identificarsi. In fondo si cercava di dare ragione di una passione incontrollata che dalla gelosia porta al delitto. Non è più possibile. Lasciando invariate le battute ho tolto questa empatia. Qui c’è un femminicidio. Quando Gassman, Randone, Ricci e altri facevano Otello, in Italia vigeva la legge di riduzione pena per “delitto d’onore“. E molte traduzioni, da Quasimodo a Lombardo, tendono a un testo poetico coinvolgente”.
Però ci sono passaggi obbligati.
"Sì, e non li ho evitati”.
Per esempio?
"Il fazzoletto di Desdemona, la prova del tradimento. Chi usa oggi un fazzoletto? Nella cultura dei miei personaggi l’ho sostituito con il talismano della madre di Otello. Dov’è finito? Il monologo di Emilia, poi, sul rifiuto della violenza e sul sistema di valori maschile, affidato alla bravissima Antonia Truppo, diventa l’invettiva di una donna di oggi”.
Altre tragedie in futuro?
"A questo punto non voglio più fare calcoli. Ho fatto tanto cinema di commedia. Però, come dire, non sono solo così. Vengo dal teatro. Ho dentro anche un’anima drammatica. La lezione del mio maestro, Gigi Proietti, è sempre viva, presente: allarga il campo, cerca di raggiungere tutti. E ora mi fermo”.
Anno sabbatico?
"Non proprio. L’anno prossimo farò solo teatro. Ho scritto un testo sul rapporto tra autore e pubblico: la lezione sul narrare di un professore universitario. Parlerò del meccanismo di storie popolari, perfino di barzellette, ma anche di Calvino, Marquez, Eco. Chiamerò il pubblico sul palco. Vi aspetto, dal 13 dicembre all’Arcimboldi di Milano”.