Paranoia. Lamenti. Deliri razziali. Propaganda. Non manca nulla nel Mein Kampf hitleriano, scheletro teorico del nazionalsocialismo, pubblicato per la prima volta nel ’24. Giusto un secolo fa. Materia buia. Nerissima. Da cui però Stefano Massini si è voluto lasciare ispirare per la nuova produzione del Piccolo, da martedì allo Strehler (fino al 27 ottobre). Un Mein Kampf in forma di monologo quello del drammaturgo e attore fiorentino, cinque Tony Award per la Lehman Trilogy ronconiana.
Massini, perché Hitler?
"Mi piace usare la metafora del vaccino, forma depotenziata di un virus che ti viene inoculato affinché il sistema immunitario lo riconosca nel momento in cui ci entrerai in contatto. È la stessa cosa sul palco: faccio risuonare parole tremende in un contesto sicuro, in modo che poi uno sappia riconoscere il virus. Lì fuori siamo da soli".
Cosa intende?
"La Germania ha permesso la pubblicazione del Mein Kampf nel 2016, a condizione che venisse proposto con un apparato critico. Ogni atrocità rimandava a una nota dove si ricordavano le conseguenze reali di quelle parole. Ma nel mondo non c’è esegesi che ci spieghi cosa succede. E oggi ci sono persone che dicono cose peggiori".
A chi sta pensando?
"Infiniti esempi, non solo a destra. Ma un episodio mi ha colpito: Trump ha affermato che per risolvere il problema della criminalità negli Usa basterebbe “una sola ora autorizzata di violenza totale per le forze dell’ordine e l’esercito“. Parole che potrei inserire una di queste sere e non avrebbero niente di diverso da quelle scritte un secolo fa".
Il solo titolo suona scandaloso, ancor più al Piccolo...
"Bisogna vedere il perimetro delle cose, se non si vuole perdere il controllo degli avvenimenti. E credo che – escluso il genio assoluto di Chaplin – sia il momento di evitare l’ennesima parodia coi baffetti, per indagare il cuore del problema, come nel film La zona d’interesse di Glazer. Ovvero, il fatto che milioni di persone abbiano abbandonato ogni senso critico per seguirlo. È urgente affrontare quelle pagine a muso duro e ascoltare se fanno ancora effetto. La conoscenza è l’unico ingrediente fondamentale per il non ripetersi delle catastrofi".
Cosa l’ha colpita nei materiali che ha studiato?
"Il libro non è un trattato ma una biografia, un romanzo di formazione dettato in carcere a trent’anni, dove era rinchiuso per tentato colpo di Stato. Hitler sceglie dunque la forma più ruffiana per raccontare sé stesso nei termini di un underdog incompreso, reietto. Mentre però crescono le visioni dal tono messianico: Gesù non ha compreso, Marx ha sbagliato, finalmente arrivo io che ho capito tutto. E in questo percepisci quanto sia già presente quell’idea così attuale di relazione politica basata sull’emotività e l’empatia".
Il suo Mein Kampf teatrale ha avuto una lunga gestazione.
"La prima idea mi venne qui alla Scuola del Piccolo, primi anni 2000. Un ragazzo stava lavorando sul monologo del Riccardo III: “Ora, l’inverno del nostro scontento…“. Io ero lì con Luca Ronconi che detestava il lirismo shakespeariano e fece una delle sue uscite epocali, spiegando che le prime volte che gli spettatori avevano ascoltato quelle parole ricordavano bene chi fosse stato Riccardo III, sovrano sanguinario che aveva ucciso i nipotini e assassinato il fratello. E quindi era meglio pensare a Hitler mentre lo si recitava".
Un’epifania.
"Ma ho dovuto lavorarci per anni, trovare le condizioni giuste. E ho seguito il consiglio di Ronconi di non affidarlo a un attore, rischiando l’istrionismo, ma di interpretarlo in prima persona. Credo sia uno spettacolo coraggioso, spietato, pericoloso, forse respingente perché duro. Un percorso di conoscenza. Verso sé stessi e verso la realtà".