Martedì 12 Novembre 2024
MATTEO MASSI
Magazine

E il mondo scoprì il lato oscuro della Luna

Cinquant’anni fa usciva l’album capolavoro dei Pink Floyd. Tuttora “The Dark Side of the Moon“ è tra i vinili più venduti, anche in Italia

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Il Sessantotto dei Pink Floyd era stato soprattutto fare i conti con l’addio di Syd Barrett. The Dark Side of the Moon nasce da lontano. Festeggerà i suoi cinquant’anni domani, il primo marzo. Ma quella fine dell’inverno del 1973 con all’orizzonte la primavera è solo l’atto conclusivo di un cammino che era partito molto prima. Esattamente dal 1968: Barrett se ne va e Roger Waters – che proprio nelle scorse settimane ha registrato da capo The Dark Side of the Moon – diventa figura centrale. Non è tempo ancora della conflittualità accesa (e senza sosta) che arriva fino ai giorni nostri e che trae linfa anche dalle diverse posizioni sulla guerra in Ucraina tra Waters e Gilmour.

Agli inizi dei Settanta, perso Barrett, i Pink Floyd sembrano granitici. Nel 1969 s’incrociano (e si scontrano pure) con Michelangelo Antonioni per Zabriskie Point. Il regista li chiama per la colonna sonora del film, salvo poi bocciare molte proposte (e soluzioni) della band. Una su tutte il tessuto musicale steso dalla tastiera di Richard Wright. Doveva essere parte integrante della “Violent sequence” del film, viene messo invece all’angolo. Ma non sparisce. Riapparirà tre anni dopo nel tour che porterà alla stesura di The Dark Side of the Moon per diventare Us and Them.

L’album inizia a prendere forma nel 1971. A Camden, nella casa del batterista Nick Mason, nasce l’idea di realizzare un concept album. Con un processo creativo, diverso dal solito, che inserisca quelle che diventeranno le canzoni della spina dorsale dell’album già nel tour che serve a promuovere il disco precedente Meddle, che è poi il vero spartiacque tra il periodo Barrett e il dopo Barrett. Quell’anno è memorabile, per Waters, anche per un’altra ragione: l’Arsenal ha vinto il suo ottavo titolo e ha fatto anche il Double, alzando al cielo anche la Fa Cup. Raccontano che quando i Pink Floyd finiscono in studio per registrare The Dark Side of the Moon – dopo aver pensato solo per una manciata di mesi di intitolare quel disco Eclipse perché c’era un altro Dark Side of the Moon dei Medicine Head (1972) – sotto la guida del guru dei suoni Alan Parsons, lo stesso che aveva lavorato coi Beatles per Abbey Road e Let It Be, Waters si assenta per vedere le partite dell’Arsenal e gli altri della band invece finiscono davanti al televisore per Flying Circus dei Monty Python, in cui Gilliam e soci negli sketch introdotti da "e ora parliamo di qualcos’altro", citano anche loro la squadra di calcio dei gunners.

Gilmour per i trent’anni del disco (2003) a chi gli chiederà se siano vere le assenze (giustificate) per vedere i Monty Python in tv dirà: "Non era sempre così, quando c’era da lavorare, ci mettevamo giù in studio a lavorare. I Monty Python servivano a rilassarci". E mentre la Gran Bretagna scopre con Flying Circus i Monty Python (che da allora prenderanno questo nome), The Dark Side of the Moon prende forma. La forma che prende (e la direzione) è quella di un concept che attraverso anche suoni martellanti (il ticchettio dell’orologio in Time o quello dei soldi in Money) scandisce gli stadi della vita umana, tra cui l’infermità mentale e qui rientra, con forza, l’ombra (più che il fantasma) di Syd Barrett. Un’ombra che – in un’assordante assenza – non avrebbe mai più abbandonato i Pink Floyd da qui alla fine dei giorni di Barrett (morto nel 2006).

The Dark Side of the Moon esce ufficialmente il primo marzo del 1973, ma quasi un anno prima viene presentato alla stampa, quando ancora è un lavoro in fieri. È il 17 febbraio 1972 e i Pink Floyd al teatro Rainbow mostrano quello che hanno intenzione di fare da lì a un anno. Michael Wale di The Times scrive: "Fa venire le lacrime agli occhi". E sarà la stessa cosa che dirà, un anno dopo, la moglie di Roger Waters, quando lui le fa ascoltare The Dark Side of the Moon che è fatto (e rifinito). "Si mise a piangere – racconta lo stesso Waters – e da lì capii che aveva toccato qualche corda". Le stesse che dopo cinquant’anni continua a toccare. E in fondo è proprio questo il segreto – che poi così tanto segreto non è – per comprendere l’immortalità di un lavoro che continua a essere al primo posto nella classifica dei vinili venduti. Senza temere concorrenza. Perché suona ancora così diretto a tutti i nostri cinque sensi. Anche senza bisogno di stimolarli tutti contemporaneamente.