Venerdì 8 Novembre 2024
LUCA SCARLINI
Magazine

Duchamp, il profeta dell’arte della copia

In mostra al Guggenheim di Venezia tutta la vertigine di riproduzioni, pastiche, citazioni del maestro dell’ironia metafisica

Duchamp, il profeta dell’arte della copia

Duchamp, il profeta dell’arte della copia

La copia, la riproduzione, il pastiche, la citazione, sono la regola prima del pensiero postmoderno che impera nella infinita produzione di immagini in rete, che si alimenta di icone del passato e del presente in un continuo mix. Nell’arte del Novecento il primo a pensare la vertigine della replica, con conseguenze incalcolabili è Marcel Duchamp, che continua a interrogare il presente con la forza della sua ironia metafisica. Guggenheim Venezia presenta ora una notevolissima indagine nella visione di questo profeta dell’epoca della riproduzione. Marcel Duchamp e la seduzione della copia è in corso fino al 18 marzo 2024, a cura di Paul B. Franklin, tra i massimi specialisti dell’artista franco-americano (suo è anche il ricco catalogo edito da Marsilio, 240 pagine, 49 €). Il legame con Peggy Guggenheim è uno dei fili dell’esposizione, come dichiara la fotografia in cui compare con accanto una Maiastra di Costantin Brancusi, con una pubblicazione (verosimilmente The Little Review, influente magazine d’avanguardia) che stampa uno degli imitatissimi rotorilievi dell’artista (uno dei quali, con il pesce, è stato scelto come immagine della esposizione).

Al centro della mostra è la Boîte-en-valise, elaborata tra il 1935 e il 1941 come clamoroso catalogo delle sue opere. Un meraviglioso oggetto pop up, da poco restaurato dall’Opificio di Firenze, in cui con grande ironia Duchamp attraversa tutte le sue fasi creative, mettendo come sempre in discussione la sua identità nel personaggio di Rrose Sélavy, alter ego femminile, dall’allure romantica, immortalata da Man Ray in uno scatto famoso del 1921. L’oggetto, appartenuto a Peggy Guggenheim, venne esposto nel 1942 in una presentazione di Art of This Century nella libreria Scribner’s a New York.

In un’epoca di esilio, di fughe, la valigetta diventava una specie di immagine di un’arca di salvezza per l’arte minacciata dai nazisti, che avevano bollato la maggior parte della produzione moderna come entartete, ossia degenerata. Centrale è la dimensione artigianale, ribadita come necessità estetica in una intervista del 1936, in cui Duchamp afferma la necessità dell’abbandono della pittura nel 1918: "Stavo diventando un pittore professionista e la professione è sempre la morte dell’arte". Per poi passare a un tono drammatico, insolito nelle sue dichiarazioni, quasi sempre votate a una grande ironia: "I grandi maestri erano professionisti, il che significa che erano fabbriche costituite da un solo uomo. L’arte non si fa nelle fabbriche. Preferirei che mi sparassero, suicidarmi o uccidere qualcuno piuttosto che dipingere di nuovo".

In un continuo gioco tra dentro e fuori l’arte, ma mai rinunciando all’affermazione della propria identità di artista, sia pure messa continuamente in discussione, non a caso Duchamp spesso propone la figura della porta e della finestra come emblema della sua visione della realtà. In mostra compare la Bagarre di Austerlitz (1935-1936) e il poster per la mostra collettiva newyorkese Doors, nel 1968.

Proprio a Venezia, nel 1978, alla Biennale una sua celebre porta (Porte 11 rue Larrey, 1921

unico oggetto a non venire replicato nella sua produzione) venne ridipinta per errore dagli imbianchini che l’avevano scambiata per un oggetto da restaurare. Il paradosso avrebbe incantato Duchamp, maestro delle copie che nell’epoca della perdita di aura, mantengono sempre l’identità dell’arte.