Potrebbe essere l’ultimo film di un grande combattente mite, dell’ultimo rivoluzionario, l’ultimo autore di un cinema non riconciliato, di lotta e di utopia. Un cinema che racconta le ingiustizie, le fratture nell’anima del mondo, ma è anche intriso di speranza. E "speranza" è una parola chiave, per Ken Loach. "Speranza è una parola politica. Deve esserci, dobbiamo costruirla. Se abbiamo speranza, se crediamo di poter cambiare le cose, allora si può fare un’azione politica. Se le persone perdono la speranza, diventano ciniche, vulnerabili, disperate. E scelgono la destra. Ma mentre preparavo questo film, ho incontrato persone che hanno vissuto esperienze atroci, e che tuttavia mantengono la speranza. Come i siriani che si vedono nel mio film. Tranne la protagonista, gli altri sono veri rifugiati. Che hanno portato la loro forza d’animo, la loro speranza dentro il film".
Un film che, però, potrebbe essere l’ultimo di Ken Loach, 86 anni, combattente dallo sguardo gentile. "Questo è l’ultimo film che faremo con Ken", scrive nel libretto di informazioni per la stampa il suo amico e complice, l’altra metà del suo cinema, lo sceneggiatore di sempre Paul Laverty. Ma non c’è ombra di screzi, anzi Laverty parla di Loach con una tenerezza infinita, ricordando le condizioni difficili delle riprese, e quest’uomo di 86 anni che ha visto girare film per trent’anni di seguito. Gli rende l’omaggio più bello: "Dai bambini ai ministri, ha sempre trattato tutti con gentilezza. Mai l’ho visto trattare qualcuno con qualcosa che non fosse il più profondo rispetto". Ci deve essere allora, in questo addio, qualcosa di profondamente vero. E arriva, questo addio, proprio quando oggi viene presentato a Cannes The Old Oak, il film che potrebbe dargli una terza, storica Palma d’oro, dopo quelle per Il vento che accarezza l’erba (2006) e Io, Daniel Blake (2016). Non ci è riuscito nessuno.
A Cannes Ken Loach, parla con un filo di voce. I capelli bianchi e fini scompigliati sul volto. Come sempre, camicia: niente giacca. Sul suo possibile addio al cinema glissa: "Non è importante la mia storia personale, parliamo del film". " The Old Oak" – in Italia con Lucky Red – è girato in un villaggio desolato nel Nord est dell’Inghilterra . Negozi sprangati, disoccupazione, desolazione, birre. Lì arrivano dei rifugiati siriani, bambini, donne, anziani che hanno vissuto le violenze del regime di Assad. Ma per gran parte degli abitanti del villaggio saranno "gente con gli stracci in testa". Cresceranno ostilità, diffidenza, odio. Una guerra di povertà. Solo una giovane siriana – Ebla Mari, bravissima – e il proprietario del pub in rovina proveranno a tendere un ponte fra questi due mondi devastati.
«Ci sono tre parole importanti, nel film: solidarietà, forza, resistenza", dice Loach. "E tre ancora più importanti: aiutare, educare, organizzare. Bisogna organizzarsi, per neutralizzare lo sfruttamento, l’odio. Le persone che arrivano da fuori diventano il capro espiatorio di tutto, di una crisi economica e sociale che ha radici del tutto diverse. Questo è quello che vogliono i grandi potentati economici: trovare gruppi sociali ed etnici a cui dare la colpa di tutto", dice Loach. "Che cosa sono i migranti se non dei capri espiatori? La propaganda contro “l’invasione“ non fa che alimentare le posizioni fasciste". Ma sui migranti, Loach dà anche in parte ragione al governo italiano: "Italia e Grecia hanno ragione, non si può addossare soltanto a questi due paesi il peso di tutto questo". Inevitabile chiedergli che cosa pensi della politica in Italia. "L’Italia ha una destra estrema, forse più della maggior parte dei partiti di destra in Europa", dice. "Ma se si lascia un vuoto, è lì che si inserisce la destra. Se non vogliamo lasciare campo libero ai razzisti, c’è un solo modo: costruire un piano chiaro di solidarietà. E bisogna creare eventi, eventi che portino le persone a unirsi. Bisogna mangiare insieme, bisogna ridere insieme. Anche ridere è un atto politico. La speranza è politica".