Una delle sequenze più emblematiche de Il treno dei bambini, film diretto da Cristina Comencini e adattamento del romanzo omonimo di Viola Ardone, si svolge nella stazione ferroviaria di Modena. Su una banchina uomini e donne di ogni età con bandierine dell’Italia, cartelli di benvenuto e l’inno di Mameli in sottofondo. Su quella difronte a loro una fila di bambini infreddoliti ed emaciati che arrivavano al Nord da un Sud poverissimo e disperato. A separarli solo i binari che, metaforicamente e materialmente univano un Paese che andava ricostruito. Anche moralmente. Presentato alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Grand Public, e in arrivo su Netflix dal 4 dicembre, il film racconta una storia vera che in molti non conoscono. Una storia di generosità e accoglienza – e qui c’è anche tutta la sua attualità pensando al nostro presente fatto di muri ai confini e burocratici – raccontata attraverso gli occhi di un bambino diviso tra due madri.
Amerigo, otto anni (Christian Cervone da piccolo e Stefano Accorsi da adulto): un bambino vivace, intelligente e affamato come migliaia di altri ragazzini e famiglie che non avevano nulla da mettere in tavola. Vive con sua madre Antonietta (Serena Rossi), una donna forte e dura che non ha mai ricevuto carezze e non sa darne. Ma che compie l’atto d’amore più grande che si possa fare: lasciare andare. Lei, come tante altre madri, affida il figlio all’Unione donne italiane (Udi) che, con il Pci, ha permesso a bambini del meridione di trascorrere dei mesi in affido a delle famiglie del Nord. Molti non fecero mai ritorno preferendo restare con chi li aveva accolti. È a Modena che Amerigo incontra la sua seconda mamma, Derna (Barbara Ronchi), una giovane donna impegnata politicamente che di figli non pensava di averne e che, invece, si ritrova madre.
"Ho letto il libro e la voce del bambino mi ha fatto molto innamorare. È bellissima, allo stesso tempo misera e molto spiritosa. I bambini, anche nelle situazioni più drammatiche come le guerre, basta che gli dai una cosa e ci giocano, prendono in giro le situazioni", racconta Cristina Comencini che ne Il treno dei bambini apre anche ad una riflessione su una maternità imperfetta, che non santifica le donne ma ne racconta tutta la potenza. "Penso all’immagine di quella mamma che tirava il suo bambino oltre un muro in Afghanistan. Nelle situazioni drammatiche c’è quest’idea del “purché lui viva“. Però è un dolore fortissimo". Scritto da Furio Andreotti, Giulia Calenda, Camille Dugay e dalla stessa Comencini, il film è
ambientato nel 1946 e, tra i tanti tempi affrontati, affiora anche quello del ruolo delle donne nella società. Le stesse che avevano contribuito a mandare avanti il Paese e liberarlo dal nazifascismo, improvvisamente si ritrovavano a dover tornare dietro i fornelli ad accudire i figli.
"In tutti i Paesi è andata così – sottolinea Comencini – Gli uomini tornavano dalla guerra e si ripigliavano il posto mentre le donne dovevano rientrare a casa. Anche quelle che avevano fatto la Resistenza. Il sindacato neanche le difendeva più e anche a livello di partito c’era un forte machismo". Sullo sfondo del racconto una Napoli poverissima fatta di macerie e fame che Cristina Comencini porta in scena con realismo.
"Sono napoletana, dunque per me Napoli è patria. Però bisogna essere duri con i propri posti. Dopo la guerra era una tragedia e in più c’erano gli americani. Ne La pelle di Curzio Malaparte tutto questo c’è, non parliamo poi della commedia di Eduardo di Filippo. C’è da lì una ricostruzione di una civiltà che si è perduta con la guerra – racconta la regista – Tutto questo lo paghiamo ancora ora, secondo me, perché quando si perde il senso della convivenza civile, quando non hai la possibilità di essere madre o padre, non c’è più niente. Per ricostruire questo non basta un secolo. Dovevo raccontarlo senza edulcorarlo".