Domenica 17 Novembre 2024
GIOVANNI BOGANI
Cinema e Serie Tv

Francesco Pannofino: "Anche il doppiaggio è un modo di recitare". Poi l’annuncio: “Boris 5 ci sarà”

L’attore romano: così comunico le emozioni dei divi di Hollywood: "Facciamo un gran lavoro per gli spettatori che sanno solo l’italiano”

Francesco Pannofino

Francesco Pannofino

La notorietà l’ha raggiunta tardi. Ora, nelle strade di Cortina, dove si è svolto il festival Cortinametraggio, i ragazzi lo fermano fuori da un bar. Gli chiedono un selfie, ridono, gli dicono "facciamolo così, così de botto senza senso!". È una delle frasi di Boris, la serie televisiva che ironizza sulla tv, diventata un cult.

Eppure, per gran parte della sua vita, Francesco Pannofino è stato soprattutto una voce. Voce di grandi attori americani che ha doppiato in decine di film. Poi, l’esplosione. Con Boris , serie tv che racconta il dietro le quinte di un’immaginaria serie tv. Lui interpreta il regista René Ferretti, alle prese con attori vanitosi e attrici raccomandate. Un ritratto dell’Italia sempre attuale.

Pannofino, lei è stato metà di George Clooney, Mickey Rourke, Antonio Banderas e mille altri. La metà nell’ombra. Le è dispiaciuto?

"No, per niente. Molti di questi attori non hanno mai saputo che faccia avessi. Ma alcuni mi hanno ringraziato. Michael Madsen, il cattivo dei film di Tarantino, mi ha detto: “I love you!“".

Quali altri attori si sono complimentati con lei?

"Beh, Christian Clavier, quando ho doppiato il suo Napoleone. E un’altra volta, George Clooney era in Italia e volle conoscere la sua voce italiana. Chiese al regista Giulio Base se per caso avesse il mio numero. Giulio è un mio caro amico. Risultato: mi squilla il cellulare e sento Clooney che mi sta chiamando e si sta complimentando con me!".

Che cosa è il doppiaggio?

"La prima cosa da capire è che non si tratta di un lavoro “minore“: con la voce si comunicano moltissime emozioni. Si tratta, in tutto e per tutto, di recitare. Di dare un senso alle battute che stiamo leggendo. E poi c’è da entrare in sintonia con l’attore, i suoi tempi, il suo respiro".

Qual è il miglior doppiatore?

"Quello che non vuole strafare e non cerca di “farsi sentire“. Il miglior doppiatore è quello che scompare dentro l’altro, l’attore che appare sullo schermo".

Perché i doppiatori italiani vengono definiti i migliori del mondo?

"Il doppiaggio in Italia ha una tradizione molto radicata, molto importante. Non dobbiamo dircelo da soli: ma se vedi i film doppiati in tedesco, francese, spagnolo, ti accorgi che gli italiani hanno la capacità di “incollarsi“ meglio alle facce".

C’è, da anni, un gran dibattito: doppiaggio contro sottotitoli. Non le chiedo ovviamente da che parte stia, ma perché il doppiaggio per lei è vincente.

"È chiaro che l’opera originale è “meglio“. Ma per chi non sa la lingua, credo che noi doppiatori facciamo un grande lavoro. Un grande lavoro per la gente. Non tutti leggono così velocemente e così agevolmente i sottotitoli: e i sottotitoli, a loro volta, cancellano una parte dell’inquadratura, ti costringono a “guardare“ di meno e a leggere".

Con chi le piacerebbe lavorare, fra i registi italiani?

"Con Carlo Verdone. Sogno da sempre di fare un film con lui: per il suo umorismo mai scontato né banale, la sua umanità. Per me è la misura di tutte le cose"

Che cosa ama guardare in tv?

"Non mi piace guardare i film, li vedo al cinema. Mi piace seguire l’informazione. E poi lo sport: mi piace il calcio, tifo per una squadra “difficile“ come la Lazio, ma non mi piace chi tifa in modo esagerato, irrispettoso".

Boris è una serie che ha attratto almeno due generazioni di spettatori. Trovando un secondo successo durante il Covid, tanto da “costringervi“ a fare una quarta serie, in onda su Disney+. Arriverà la quinta?

"Penso proprio di sì. Boris 4 è andata in onda sulle piattaforme, stiamo pensando alla quinta serie. Non è stato facile, perché dopo la morte di Mattia Torre, uno dei tre autori, persona così ricca di intelligenza, di cuore, di umorismo, a tutti noi sembrava impossibile ricominciare".

Che cosa vi ha convinti?

"Ci siamo accorti che i giovani stavano vedendo le nostre puntate, vecchie di più di dieci anni, su Netflix. Che ridevano, citavano le battute. Abbiamo capito che Boris in qualche modo non racconta soltanto la televisione, ma ogni luogo di lavoro, tutta la nostra società".

Per lei, che interpreta il regista René Ferretti, Boris è stata una consacrazione.

"A volte puoi essere bravo quanto ti pare, ma se non hai la fortuna di trovare il personaggio giusto, che entra nella simpatia del pubblico, non succede niente. René Ferretti è un personaggio di quelli che ti capitano una volta sola nella vita. Trovare un altro René sarà molto difficile".

Che cosa ama di René?

"Il fatto che sia un cinico, ma nel profondo anche idealista".

Diventare famosi a 50 anni che cosa comporta?

"Forse un po’ più di stabilità. Quando hai fatto tanta strada senza conoscere il grande successo, nel momento in cui le luci si accendono su di te sei più sereno, sai già chi sei, qualunque cosa accada".

In questi mesi è a teatro con Mine vaganti. Ama diversificare: cinema, tv, teatro.

"Il teatro è la madre e il padre di tutto il resto. Il teatro ti insegna tutto, come essere disinvolto, come reggere la scena: e ti dà la gente che ti aspetta fuori dal teatro, ti dà l’affetto percepibile, tangibile. Poi il lavoro su Mine vaganti , con la regia teatrale di Ferzan Ozpetek, è davvero esaltante. Ed è stato la prova che da un film si può trarre un’ottima opera teatrale".

Nella sua vita di ragazzo accadde una cosa tragicamente fuori dall’ordinario. Il 16 marzo 1978 passò da via Fani, a Roma, pochi istanti dopo il rapimento di Aldo Moro.

"Un’esperienza terribile. Percorrevo quella strada abitualmente: quel giorno, c’erano i cadaveri degli uomini della scorta di Moro. Erano anni durissimi, si respirava un clima teso, violento. Su quell’esperienza scrissi una canzone, Il sequestro di Stato".