Roma, 21 novembre 2024 – Delitto senza castigo. Dopo l'anteprima del febbraio scorso al festival di Berlino e le proiezioni speciali di quest'estate in alcuni cinema, arriva finalmente su Sky la prima serie televisiva firmata dai fratelli D'innocenzo."Dostoevskij" sarà disponibile su Sky Atlantic e su Now! da mercoledì 27 novembre e per la prima volta l'opera verrà proposta anche in modalità "binge watching", ovvero tutti i sei episodi che la compongono a disposizione degli spettatori in pacchetto completo fin da subito.
L'opera dei fratelli D'Innocenzo, prodotta da Sky e da Paco Cinematografica e distribuita da Vision è la prima dei gemelli romani autori di film acclamati come "La terra dell'abbastanza", "Favolacce", "America Latina", girata in pellicola: può sembrare paradossale, perché si tratta di un prodotto destinato al piccolo schermo ma la scelta stilistica si rivela anche nella visione in tv portatrice di un valore aggiunto in profondità e potenza delle immagini.
La storia, ormai nota, è quella della caccia a un serial killer, soprannominato dalle forze di polizia Dostoevskij poiché firma ogni delitto con lunghe lettere filosofiche che trattano di morte, colpa ed espiazione, intrapresa dal poliziotto Enzo Vitello, interpretato da Filippo Timi. Fin dalla prima scena (il film è ambientato in una non meglio precisata campagna laziale deturpata dalla desolazione di piccoli e grandi mostri di cemento in decadenza) veniamo subito a conoscenza del fatto che il personaggio di Timi è un uomo dall'anima spezzata. Ha appena tentato il suicidio. In seguito scopriremo che Vitello è profondamente solo: incapace di comunicare con la figlia adolescente che ha scelto di perdersi pur di allontanarsi da lui, può contare solo sull'amicizia del suo superiore. Il resto della sua vita è un oscuro deserto. In una delle sue lettere il serial killer spiega che la motivazione dei delitti è la vita stessa. In quale inferno stiamo precipitando?
Il racconto dell'opera fatto dai fratelli D'Innocenzo alla presentazione della serie ieri mattina a Roma parte dalla piena soddisfazione di aver lavorato in grande libertà (“produzione più che libera, libertina”, scherzano i cineasti), e dalla felicità di aver intessuto con il cast un rapporto di sincera armonia, di enorme fiducia reciproca. Tanta tangibile grazia, per un film che è una accumulazione di strati, intensità e livelli (ontologici, morali, familiari, sociali) di dolore, in un moltiplicarsi di specchi, di doppi, di labirinti di sofferenze. Un mondo dominato dal male, in cui la desolazione sembra annientare persino la speranza, figurarsi la redenzione. Un mondo che parla della società attuale? "No. Quando scrivo non punto la penna verso il mondo – spiega Damiano D'Innocenzo – ma verso me stesso. Quel malanno, quel malessere, è realmente il mio. In realtà tutte quelle asprezze, quelle muffe, il catrame, lo stagno, quel posto sono io. Io non cerco di raccontare il mondo e di fare un atto di denuncia banalissimo, vile, vigliacco, addirittura pretendendo di farci una serie televisiva: sarei un segaiolo, nel caso. No, io parlo di me stesso, cerco di correggere i miei sensi di colpa e di venire a patti coi miei fantasmi, cerco di comprendere me e mio fratello, e tutto si riduce lì. Il gesto artistico è lì. Io parlo di ciò che mi fa addormentare storto e di ciò che mi fa svegliare con una malinconia di fondo che non proviene da ieri ma da un passato lunghissimo e da un presentimento che ho avuto: non credo che le cose cambieranno. Che non significa essere pessimista. Però c'è uno sguardo che inevitabilmente va a indirizzare la mia creatività artistica, uno sguardo di previsione, di intarsio. Ecco: non posso essere superficiale nella descrizione di quello che definirei il contrario della morbidezza, e quindi cerco di approfondire questo lato della vita, di esplorare questo palazzo del dolore che cresce in maniera verticale. Adesso con Dostoevskij abbiamo avuto, in un'opera della lunghezza di cinque ore, la possibilità di approfondirlo, questo dolore, con più tempo, e con più tempo mi sono dedicato alle ferite che voglio in qualche modo cercare non di guarire, ma di osservare". "E intendiamoci: non vorrei mai _ prosegue Damiano _ che questo film sembrasse un accanimento verso ciò che non mi piace del mondo, perché a me piace tantissimo. A me piacciono gli sguardi obliqui, verso il mondo, e li difendo, analizzando le cose che di questi sguardi obliqui ci fanno stare male".
"Più che una storia sulla vulnerabilità maschile e femminile, spiega Fabio D'Innocenzo, Dostoevskij è un racconto sull'importanza degli incontri che ci fanno evolvere e a volte anche mettere in crisi. E' interessante essere messi in crisi, senza crisi la vita si risolverebbe in una serie di monologhi e i monologhi sono sterili. Credo ci sia bisogno di guardarsi attorno, cosa in questo momento difficilissima da fare poiché siamo rinchiusi nella solitudine delle convenzioni sociali. Anche il serial killer ha una sua vulnerabilità però il suo percorso è quello dell'approdo a un'autonomia di pensiero. Certo è un approdo a dir poco radicale poiché passa da una serie di omicidi. Comunque io rispetto quel gesto perché è un gesto di appropriazione di libertà, con cui imporre se stesso e le sue regole nel mondo che lo circonda, che circonda tutti noi". "Un mondo, proseguono i D'Innocenzo, in cui comunichiamo tantissimo ma in cui comunichiamo sempre e soltanto con delle velleità quasi politiche, celebrative. Velleità autoreferenziali con cui nascondiamo le cose più importanti. Ecco: abolire le maschere è quel che ci interessa". Abolire le maschere, scavare: nel film il corpo di Timi, sottoposto a una colonscopia, è mostrato fin nelle viscere.
Autentica opera d'autore, recitata benissimo da tutti i protagonisti, con memorabile Filippo Timi, una straordinaria, commovente Carlotta Gamba nel ruolo della figlia Ambra e la sorpresa del talento possente e al contempo delicato di Federico Vanni, "scoperto" dai cineasti a teatro, insieme all'habituée dei D'Innocenzo Gabriel Montesi, "Dostoevskij" è un "unicum" nella produzione di serie tv italiane, destinato di certo a una distribuzione internazionale. E mentre i fratelli non si sbilanciano sui progetti futuri ("Hollywood? Sì certo, i contatti ci sono, ma se poi le cose si riducono a degli incontri zoom miserrimi... Sono tanti i progetti che abbiamo a cuore: portare al cinema ‘Petrolio’ di Pasolini, o anche i ‘Canti del caos’ di Moresco, o ‘Poveri’ di Vollmann, o ‘Dissipatio H.G.’ di Morselli, o Manganelli...Un secondo Dostoevskij? Chissà, di certo faremo il terzo") a chiudere da mattatore l'incontro stampa di mercoledì è Filippo Timi.
Spiega l’attore: "Che emozioni di me ho portato sul set? I Greci sostengono che le emozioni non nascono dall'uomo ma l'essere umano attraversa le emozioni. Per la scena iniziale del film, il primo giorno di riprese, dovevo vomitare e ho chiesto aiuto a tutti sul set: sono un uomo che ha tentato il suicidio e ha avuto la possibilità di risvegliarsi. E allora ho chiesto a chi era lì con me, operai, ragazzi delle maestranze, a tutti: se avete perso qualcuno e non lo avete salutato, riempitemi di voi, sarò io a dirgli addio al posto vostro. E abbiamo pianto, tutti. In film come questi, con un personaggio come questo non c'è tecnica che tenga: ti tuffi, o anneghi o stai a galla, e alcune volte sono annegato. Il dolore… – continua Filippo Timi –. Qui ho messo in gioco il mio tabù di essere gay. Sì, per tanti anni io ho vissuto avendo paura che si vedesse che ero gay perché sono stato terrorizzato dal mio papà, da tutti... Il senso di colpa per la cosa più bella che hai: te stesso, ciò che desideri. Ovvio che se riapro quel dolore lì... quel segreto: se mio papà scopre che io a ‘Dallas’ guardo Bobby e non Pamela, io ci muoio. Ci sono persone, ragazzi, che si ammazzano per questo. E non c'entra niente col ruolo. Però un dolore originale è uguale per tutti. Cerchiamo tutti la stessa identica cosa".