di Chiara
Di Clemente
Vai bene se sei o maschia o fatina: ancora oggi la verità delle donne non la vuole sentire nessuno. E guai a infrangere il mito della maternità – come spiega Alessandra Minello nel suo Non è un paese per madri –, mito che esercita una pressione fortissima nel nome di un ideale di perfezione: in Italia nascono sempre meno bambini, aumentano le donne senza figli, chi diventa madre lo fa sempre più tardi. Perché una dimensione della vita che dovrebbe essere semplice è diventata così complicata? Questioni culturali e strutturali pesano sulle spalle delle italiane – va avanti la Minello –: tra gli aspetti strutturali, mancanza di servizi per l’infanzia, congedi parentali non equamente distribuiti e incertezza lavorativa. Tra quelli culturali, la solitudine.
Antonella Lattanzi ha interrotto la gravidanza per due volte, era a Roma dove viveva in un camper e frequentava un corso di Domenico Starnone per diventare scrittrice. Un figlio in quel momento sarebbe stato un impedimento al raggiungimento del suo sogno lavorativo: "Ci avevano promesso di poter essere donne realizzate e madri, ma non è vero". E non è vero perché poi – adesso ha 44 anni – quando Antonella si è sentita pronta a diventare madre, non ce l’ha fatta. Ha insistito, si è sottoposta alla procreazione medica assistita. È rimasta incinta di tre bambine, come scrive nel suo libro Cose che non si raccontano. E le tre bambine le sono morte in grembo. "Hai rifiutato due vite e allora sei stata punita. Non meriti di essere una madre", dice a se stessa.
Una vicenda atroce, descritta in un flusso di coscienza che mescola l’analisi dell’insostenibile strazio personale alla cronaca delle tante violenze a cui viene sottoposto il corpo di quella madre-non-ancora-madre: la violenza della clinica per la procreazione assistita, la violenza della “soluzione“ proposta alla donna durante la gravidanza a rischio per provare a salvare almeno due delle tre gemelle (una pratica di “riduzione“, viene chiamata), la violenza ostetrica.
La violenza più grande resta però, alla fine, la condanna a vivere da sole il proprio dolore. Mamma e non-mamma, gravidanza disperatamente interrotta o disperatamente cercata, depressione post parto, improbabile unione tra la lavoro e cura dei figli: la condanna è che – il femminile – sia sempre una questione privata. Oggi, Festa della mamma, vediamo che ci sono scintille che si accendono a illuminare la solitudine: ce ne sono sempre più nella letteratura italiana, e sempre più potenti, con i memoir della Lattanzi, con il tragico diario di Ada D’Adamo: anche lei, nel racconto del tumore che l’ha portata via alla figlia gravemente disabile, infrange il tabù del senso di colpa di un precedente aborto fatto per scelta, insanabile ferita “ancestrale“ nel suo cuore. Come non è più una questione privata il dolore di cui ha scritto Fuani Marino, prima in Svegliami a mezzanotte, ora anche in Vecchiaccia, ovvero l’ansia, la depressione, il disturbo bipolare, tutto quello che l’ha portata a gettarsi da un balcone in cerca di morte, con la figlia che era nata da soli quattro mesi. Sono lampi quelli accesi a indagare gli incubi e le speranze delle due gemelle ginecologhe interpretate da Rachel Weisz nella nuovissima commovente e visionaria serie tv Dead Ringers. E in fondo perché no? Sono scintille che infondono coraggio anche le mamme social (Aurora Ramazzotti, la Ferragni) che vivono la loro maternità sotto i riflettori. Disseminando di femminile – che è la capacità di dipanare, eleborare i sentimenti – una società che sempre più i sentimenti li ridicolizza. O li distrugge.