Quando riempiamo di croccantini la ciotola del gatto non ci pensiamo, ma anche il cibo per gli animali domestici ha un impatto sull'ambiente. Che è anzi piuttosto rilevante: la sua produzione richiede una superficie pari a due volte quella del Regno Unito e ogni anno genera più emissioni di gas serra delle Filippine. Lo ha calcolato uno studio dell'Università di Edimburgo, il primo a quantificare l'impatto ambientale degli alimenti per i nostri amici pelosi. I ricercatori ne hanno determinato l'impronta di carbonio partendo da quella legata ai loro ingredienti principali, a loro volta dedotti da 280 tipi diversi di cibo secco in vendita in Europa e negli Stati Uniti, che costituiscono i due terzi del mercato globale. I croccantini sono composti all'incirca per metà di proteine animali in varie forme, e per metà di cereali: grano, granoturco e riso, coltivati su una superficie stimata di 49 milioni di ettari (490mila chilometri quadrati), ossia appunto il doppio del Regno Unito, o quanto tutta la Spagna, o la somma di Italia e Ungheria. È come se un intero paese europeo, e di quelli più grandi, fosse interamente coltivato solo per produrre croccantini. Ne derivano emissioni annuali di gas serra per 106 milioni di tonnellate di anidride carbonica, paragonabili a quelle di nazioni come le Filippine o il Mozambico; nella classifica mondiale, l'industria del cibo secco per gli animali domestici si piazzerebbe alla sessantesima posizione. In realtà il valore totale è ancora più elevato, dato che la ricerca non ha preso in considerazione il cibo umido (il 5% delle vendite di alimenti per cani e gatti). "Anche tenendo conto dell'utilizzo di sottoprodotti negli alimenti per gli animali di casa", dice Peter Alexander, uno degli autori della ricerca, "dare da mangiare ai nostri amici a quattro zampe gioca un ruolo nel cambiamento ambientale. La questione finora è stata sottovalutata, ma abbiamo dimostrato che come nutriamo gli animali domestici è un fattore che dovrebbe essere preso in considerazione insieme alle altre azioni messe in campo per ridurre i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità". Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Global Environmental Change.
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