Caro David Lynch,
ti scrivo questa lettera dopo averci pensato tanto, ed essermi autocensurata per giorni nel nome della lezione giornalistica alla quale ho sempre aderito (evitare pezzi egotici in prima persona. Cosa vuoi che interessi agli altri la mia autobiografia), e dopo non aver trovato comunque scampo.
Il senso della lettera è che ci sono rimasta malissimo alla notizia della tua morte perché uno: so che sei immortale, due: perché pensavo che comunque l’enfisema di cui avevi parlato nell’intervista di qualche mese fa non fosse in realtà talmente grave da condurti così presto alla scomparsa. Poi c’è il fatto che mi sono resa conto che nonostante tutte queste differenze anagrafiche e geografiche tra me e te - io di anni ne ho 58 e sono nata a Firenze, Italia, tu di anni ne avevi 78 e sei nato a Missoula, nel Montana - alla fine in realtà non c’è, tra me e te, nessun grado di separazione. Della tua morte la tua famiglia ha detto: “Oggi è una giornata di sole, c’è un grande vuoto nel mondo ora che David non è più con noi. Ma, come direbbe lui, tieni d’occhio la ciambella e non il buco”. Della vita tu hai detto: "Trovo che ci sia dell'autentico umorismo nella lotta contro l'ignoranza. Se si vedesse un uomo sbattere ripetutamente contro un muro fino a ridursi in una poltiglia sanguinolenta dopo un po' ci si metterebbe a ridere, a causa dell'assurdità della scena. Ma nell'infelicità non ravviso soltanto l'aspetto umoristico: trovo estremamente eroico il modo in cui la gente continua a tirare avanti nonostante la disperazione che spesso la invade".
Iniziamo da "Twin Peaks”: all’epoca della trasmissione tv in Italia di quella serie, 1991, io ero talmente infoiata che - non c’erano notizie online semplicemente perché ancora Internet non era alla portata di tutti - pur di avere qualche anticipazione, telefonavo (teleselezione intercontinentale!) di nascosto dalla famiglia a un amico a New York: scandivo Da-ia-n, sorseggiavo il caffé lungo sperando di assaggiare prima o poi anche la torta di ciliegie, piagnucolavo: chi ha ucciso Laura Palmer? ho bisogno di saperlo, dimmelo per pietà.
Quando andai a vedere al cinema “Cuore selvaggio” che aveva appena vinto la Palma d’oro a Cannes uscii così emozionata, esaltata e sconvolta dalla sala che non mi capacitavo: fu un amico di mio fratello, più grande di me, a spiegarmi perché mi avesse colpito così tanto: “Il sonoro è usato in maniera stratosferica (la ragazza interpretata dalla Twin Peaks Sheryleen Fenn, dopo l’incidente automobilistico si tocca la testa, e tra i capelli appicicaticci di sangue trova SCROC! un varco mortale) ma soprattutto la grandezza di questo film è che non c’è mai un unico centro: è tutto ellittico, è questo che fa la differenza”. Fu lì che mi innamorai di questo ragazzo, perdutamente e solo e proprio perché avevamo visto insieme “Cuore selvaggio” e lui aveva dato forma e parole all’emozione dirompente che io avevo provato, solo lui era riuscito a spiegarmela. Poi vabbè, per quel ragazzo fu un amore senza speranza, ma è un'altra storia, o quasi.
Nessun grado di separazione. Della morte tu hai detto: “Credo che non sia la fine. Ma è la mia parola contro quella di qualcun altro. E’ solo il mio modo di pensare. E’ come dormire, il mattino dopo ti svegli e cominci una nuova giornata. Potrebbe essere un simbolo all’interno di un disegno più grande: dopo la morte passi un po’ di tempo in un sogno e poi _ caspita! _ torni indietro”. Mio padre è morto nel 2003. Tanti anni fa vedemmo alla tv insieme “The Elephant Man”. C'è quella scena in cui John Merrick viene visitato dall'attrice interpretata da Anne Bancroft, parlano di Shakespeare, e lui risponde alle battute di lei, che in quel momento è Giulietta, e poi Bancroft gli dice "Oh Signor Merrick! Lei non è affatto un Uomo Elefante! Lei è Romeo". E fu lì che mi voltai verso mio padre, e c’erano due grandi lacrime che scendevano sulla sua bellissima faccia. Non lo potrò mai dimenticare.
Nessun grado di separazione. Io, te, le sigarette. Adesso si sta spargendo la notizia che sono stati i roghi di Los Angeles, i fumi, il trasferimento forzato dalla tua casa per la minaccia delle fiamme a far precipitare le tue condizioni di salute: nemesi nella nemesi, tu che già dovevi ricorrere all’ossigeno supplementare col respiratore come il Dennis Hopper di “Velluto Blu” ma non hai mai smesso di fumare, ti sei ritrovato vittima del Fuoco che ha sempre camminato con te, dal Twin Peaks cinematografico ai fiammiferi che si accendono a ripetizione – il padre di Lula morto in un incendio, tutta la sequenza dei titoli di testa è un incendio – in “Cuore selvaggio”. Bene, mi riaccendo il cicchino e vado avanti.
Nessun grado di separazione. Lessi in un’intervista che tu, caro David Lynch, praticavi la meditazione trascendentale, quella insegnata da Maharishi Mahesh Yogi ai Beatles, e che ti aveva aiutato a superare dipendenze, scatti d’ira, insonnia e quant’altro. Letto fatto: cercai subito un insegnante di MT, e iniziai anch’io - evito di raccontare i particolari sui costi spropositati per lasciarmi sussurrare nell’orecchio una parolina in sanscrito - a meditare, come te. (NB: per lunedì 20 a mezzogiorno la tua famiglia ha chiesto a tutti di meditare insieme per te, almeno 10 minuti).
Nessun grado di separazione. Ricordo una sera in cui tornai a casa dopo il lavoro. Mio marito spense tutte le luci. Prese una piccola lampada, forse quella del telefonino, piccola luce che illuminava solo il suo volto, al buio, e si mise a cantare, come lo scagnozzo di Hopper in “Velluto Blu”, “In Dreams”, di Roy Orbinson. E se potevo amare già tanto mio marito, quella sera - e da allora in poi, altro che il ragazzo di “Cuore selvaggio” - l’ho amato sempre e ancora di più.
Nessun grado di separazione: ho fatto vedere a mia figlia adolescente “Cuore selvaggio”, adesso che lei è all’università e studia cinema abbiamo riguardato insieme “Mulholland Drive” – incantate, impaurite, esterrefatte -, e io solo il mese scorso, per caso, ho rivisto “Inland Empire”, e il mio cervello e il mio cuore pulsavano, correvano felici di scontrarsi, sprofondare e fuggire, forse, dentro tutta quella oscurità. Quando pochi anni fa è uscito il sequel tv di “Twin Peaks” sono talmente stata invasa dall’episodio numero 8 (praticamente nessuna parola, solo immagini e musica, lo scoppio della bomba atomica nel deserto durante il test nucleare del 1945, noi materialmente dentro la deflagrazione, fin dentro le particelle atomiche che schizzano per tutto lo schermo: l'origine dell'orrore) da non pensare ad altro per settimane e ascoltare in loop Penderecki. Ti ho seguito su Internet quando ancora Internet era all’inizio, ti ho continuato a seguire sui social quando ogni venerdì ricordavi che era venerdì ("Can You Believe It It's Friday Once Again!"). Ti ho adorato quando facevi coppia con Isabella Rossellini, perché anch’io avrei voluto fare coppia con Isabella Rossellini, una delle donne più belle e ganze del mondo. Ho sorriso non sai quanto leggendo David Foster Wallace che specifica che i modi di interpretare "Strade perdute" sono "37, all'incirca". Ho sperimentato grazie a te che nel sogno, nell'incubo e nella veglia l'esistenza è spesso autoironica, spesso assurda, è sempre doppia, non ha mai un solo centro, e procede in un equilibrio perennemente sbandato in prossimità del nero precipizio del male, col male che è la mia ombra, pronta a ghermirmi. Ho sempre detto a me stessa di fronte ai tuoi film, e ai tuoi telefilm, che non importava arrivare a capirli fino in fondo: l’importante era il viaggio che ogni volta mi imponevi di intraprendere verso la loro conoscenza, verso una o più d’una delle tante possibili comprensioni. Un invito alla vita, e al suo mistero che resterà sempre incomprensibile. Mistero che se però non mi sforzo continuamente di capire, tanto vale non viverla affatto, la mia vita.