Roma, 3 febbraio 2021 - Carnevale, periodo ottimo per i golosi perché i dolci sono protagonisti come non mai, declinati in ogni variante, con specialità regionali una più appetitosa dell’altra. C’è chi in Toscana mangia i cenci e chi in Piemonte le bugie, chi le chiacchiere in Lombardia, chi i crostoli in Veneto (grustoi a Vicenza, galani a Venezia, crostoli nel Triveneto), chi le frappe in Emilia Romagna (sfrappole a Bologna) e chi le meraviglias in Sardegna (in Valle d’Aosta si chiamano merveillas, similitudine risalente forse a quando le due regioni facevano parte del Regno di Sardegna).
In realtà tutti questi fortunati golosi stanno gustando (con qualche variante dovuta più all’estro di chi li prepara che alla ricetta base) lo stesso tipo di dolce, quello che rappresenta il Carnevale per antonomasia in tutta la Penisola: un pezzetto di sfoglia dolce fritta – diversi i tipi di liquore usati per aromatizzarlo - poi cosparso con zucchero a velo, quadrato (come uno straccetto, da qui il termine cencio) oppure tagliato in larghe strisce arricciate (come nastri ornamentali o gale, quindi frappe).
Tanti nomi per uno stesso dolcetto? Sì, e ancora di più, anche se, con debite varianti, esso pare avere avuto un’unica origine, ovvero dai "frictilia" romani, (fritti nel grasso del maiale), che si preparavano per festeggiare i Saturnali (ovvero il Carnevale dell’epoca). Una denominazione comune si può notare negli appellativi, e cioè che rimandano a qualcosa ludico e divertente, dalle frivole gale (nastri arricciati, balze decorative degli abiti eleganti) delle frappe alle bugie così dette per un ironico plauso a chi, mentre le preparava, commentava con le amiche i pettegolezzi del giorno, fino a un’origine nobile per il termine di “chiacchiere”, coniato per quei dolcetti inventati dal cuoco di corte napoletano, Raffaele Esposito, per la Regina Margherita di Savoia che li gustava quando si intratteneva a conversare con le dame di corte.
Se le frappe o cenci o come dir si voglia si trovano in tutta la Penisola, ci sono ancora tanti dolci tipici del Carnevale che variano da regione a regione, ad ulteriore riprova, se ce ne fosse bisogno, che l’estro italico in cucina ha radici antiche, fatte di cose buone e di fantasia, che non temono rivali. Per restare fra i dolci di Carnevale, quelli fritti sono i più frequenti e i più conosciuti: castagnole, fritole, frittelle, tortelli, ciambelle, zeppole, cicerchiata, struffoli, sfinci. Le castagnole sono appunto simili a piccole castagne, hanno alcune varianti ma gli ingredienti di base sono uova, zucchero, farina, burro, lievito, scorza di limone o arancia, vaniglia e liquore o latte. Risalgono al Settecento (ne parla anche un manoscritto conservato negli Archivi di Stato di Viterbo), sono diffuse in Veneto, Emilia Romagna, Lazio (Tuscia in particolare) e si trovano anche in Campania, parenti strette degli struffoli. Gli struffoli napoletani vengono fatti risalire addirittura ai Greci, e poi il dolcetto sarebbe salito verso nord, con qualche differenza. Già in due famosi trattati di cucina del 1600, il Latini e il Nascia, parlano di “struffoli” a proposito di dolci preparati come quelli napoletani.
Che in Umbria, Marche e Abruzzo si chiamano cicerchiata: sono sempre palline di pasta fritta tenute insieme con il miele, ma cambiano nome e prendono quello dei legumi dette cicerchie che, cosa curiosa, non sono commestibili. In Basilicata e Calabria troviamo la Cicerata (per la somiglianza ai “ciceri” ovvero i ceci). Gli struffoli si preparano anche a Palermo, dove perdono una “f” e diventano “strufoli”, mentre nel catanese sono “pignolata”, sempre palline fritte ma infilate in un bastoncino, legate con il miele a formare una piccola pigna. Che nel tempo è stata rivisitata dai mastri pasticceri messinesi con l’aggiunta di cacao e agrumi, fino a inventare la pignolata glassata un must straordinario, tipico del Carnevale siciliano. Frittelline di pasta lievitata sono gli sfinci siciliani, che poi non differiscono molto nell’impasto dalle fritole, tipiche del Carnevale veneziano, talmente radicate che nel ‘700 furono designate come “Dolce Nazionale dello Stato Veneto”. Sono palline fatte con farina, uova, zucchero, latte, lievito per dolci e aroma d’agrumi, poi fritte e spolverate con zucchero a velo. Insomma da nord a sud questi dolcetti fritti anche se con qualche differenza e nomi diversi uniscono l’Italia. Se a Milano vi propongono i tortelli di Carnevale, non aspettatevi una variante dolce dei ravioli di pasta: si tratta di palline simili ai bigné, fritte, che possono essere riempite di crema o marmellata.
Infine, ed è il caso di dire dulcis in fundo, se a Napoli vi offrono le graffe... allora siete fortunati. Gusterete un pezzetto di storia che ha preso la forma di un dolce buonissimo, che davvero unisce l’Italia all’Europa. Perché queste ciambelline spruzzate di zucchero, adesso tipiche all’ombra del Vesuvio, hanno un’origine che merita di essere raccontata. E che risale a Vienna. Culla dei famosi krapfen, nati da un pezzo di impasto che alla fine del XVII Cecilia Krapf , cuoca degli Asburgo, fece cadere per sbaglio in una padella pena di olio caldissimo. Nascevano così i krapfen, che dall’ Europa del nord conquistarono anche l’Italia. Dove arrivarono a Napoli, e l’estro partenopeo li trasformò in graffe. Un soffice impasto a base di farina e patate, un po’ diverso anche nella preparazione dal krapfen austriaci, che trionfa a Carnevale. Ma è buonissimo in ogni momento dell’anno.