Cannes, 22 maggio 2024 – "Questa città non è elegante". Sarà per contrasto che per incarnare Parthenope, la sirena protettrice di Napoli secondo la mitologia greca, Paolo Sorrentino sceglie una bellezza lombarda, Celeste Dalla Porta, la cui eleganza è il tratto prevalente. Sottile, eterea, lontana dalla femminilità esuberante ed effervescente, legata – almeno per tradizione – all’avvenenza campana, la giovane protagonista possiede lo splendore richiesto alle modelle dalla moda e dalla pubblicità che lo sguardo di Sorrentino arricchisce però di luminosità mediterranea.
Se in ‘È stata la mano di dio’ Napoli era l’anima di cui era pervasa la memoria dell’adolescenza del regista, in Parthenope la figura della protagonista garantisce, diremmo quasi con il proprio corpo, la perennità dell’anima della città. Piena di vita ma disillusa, malinconica ma ironica, capace di legare tutti a sé come già la sirena coi suoi canti. Per questo la vicenda è senza tempo: sebbene di Parthenope si veda brevemente la nascita nello specchio d’acqua di Marina piccola e, ancor più velocemente, la vecchiaia al giorno d’oggi, il film si concretizza in un’epopea femminile sprovvista di eroismo ma densa di sottili emozioni; quasi tutta racchiusa nel decennio Settanta che fu storicamente l’epoca in cui Napoli cambiò quasi improvvisamente pelle abbandonando il torpore e tornando al destino di metropoli internazionale.
Che si tratti degli amori giovanili, dei soggiorni capresi, dei conflitti familiari delle prime fascinazioni (l’alcolizzato scrittore gay John Cheever interpretato da Gary Oldman) di passioni indicibili, a prendere il sopravvento è un continuo incessante flusso d’immagini che catturano l’occhio, che incantano, che trasmettono inquietudine ma che non danno tregua.
Talvolta la sua attitudine irrita per la libertà che il regista si prende nei confronti dello spettatore, costretto a subire una bellezza che è in primis tutta sua di cui le inquadrature sono intrise sino alla maniera. Si tratta della libertà dell’artista da accettare o da respingere ma che non può essere messa in discussione. Con l’indubbia riuscita dei primi film (L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia) Sorrentino ha acquisito la libertà di compiacersi, di osservare liberamente fuori dalle assi cartesiane del racconto.
È certamente più criticabile l’intreccio dei dialoghi, spesso farciti di asserzioni, di citazioni mal celate ("la bellezza è come la guerra, apre le porte"; "alla fine della vita resta solo l’ironia"; "è stato meraviglioso essere ragazzi ma è durato poco") giustificati dalla rivendicata prontezza di spirito di Parthenope il cui vanto è la battuta pronta.
I secondi anni Settanta vedono la prima maturità della protagonista (la sirena Parthenope eternamente giovane non può sposarsi né avere figli) che facendosi antropologa – o meglio docente universitaria di antropologia, allieva di Silvio Orlando – incarna la capacità di conoscere, di rilevare i comportamenti, di studiare i miti. Né lei né Orlando sanno cosa sia l’antropologia ma sembra saperlo Sorrentino che la identifica a modo suo con l’arte cinematografica. Non a caso egli “vede”, scorge fuori quadro.
La sequenza dell’attrice al primo declino (Luisa Ranieri), sorta di Loren sguaiata, o quella dell’insegnante di teatro sfigurata (Isabella Ferrari) che chiede a Parthenope un bacio rigeneratore, ci riconnettono con il dolore profondo della città che grida, così come la sequenza del piacere che il vecchio prelato dona al corpo di Parthenope, vestita solo dei monili del tesoro di San Gennaro, ci rammenta la natura blasfema ( o solo pagana?) della religiosità della città.
Non tutte le digressioni visive affascinano in ugual modo. Alcune come il superfluo coito pubblico della coppia di giovani in garanzia della virilità o il mostruoso figlio del professore, a metà tra una gigantesca scultura di Botero e un’onirica rappresentazione fetale, nulla aggiungono a un equilibrio talvolta instabile tra immagini e simboli. "L’amore per sopravvivere". Ma Sorrentino sa che non è vero.