Giovedì 6 Febbraio 2025
COSTANZA CHIRDO
Magazine

Brutalista ma bella: l’architettura è da Oscar

Il film di Brady Corbet, interpretato da Adrien Brody, segna l’apice della riscoperta del movimento artistico tutto cemento e austerità

Adrien Brody, l’architetto (immaginario) László Tóth di The Brutalist

Adrien Brody, l’architetto (immaginario) László Tóth di The Brutalist

"Nessuna cosa è spiegabile per sé stessa. C’è una migliore descrizione di un cubo rispetto a quella della sua costruzione?" afferma László Tóth (Adrien Brody), l’architetto protagonista del pluricandidato agli Oscar The Brutalist, in risposta alla domanda sulla sua passione per l’architettura. Con ben 10 nomination, tra cui miglior film, miglior attore protagonista e miglior regista, il film di Brady Corbet, già vincitore del Leone d’Argento alla mostra del cinema di Venezia, è arrivato ora nelle sale italiane.

In una pellicola della durata – non indifferente – di tre ore e trentacinque minuti, Corbet racconta in modo elegante e struggente la storia di László Tóth, architetto ebreo ungherese sopravvissuto all’Olocausto e immigrato negli Stati Uniti nell’immediato dopo guerra mentre sono bloccate in Europa, con un traumatico passato alle spalle, la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote orfana Zsofia (Raffey Cassidy). Toth si trasferisce a Philadelphia dove inizia a cercare lavoro. Fin da subito, gli appare chiaro come quell’American Dream tanto idealizzato non trovi facile realizzazione nella realtà. Il suo primo lavoro, commissionato dalla ricca famiglia americana Lee Van Buren e consistente nella ristrutturazione e riprogettazione della loro biblioteca privata, viene accolto con tale disprezzo che il patriarca Harrison (Guy Pierce) si rifiuta di pagarlo.

Lo stesso uomo, però, torna poi a cercarlo mesi dopo, quando la biblioteca finisce su una rivista importante proprio grazie al lavoro di Toth. Così, Van Buren decide di commissionargli un progetto molto più grande e ambizioso. Come la biblioteca, il nuovo progetto di Toth – che rivela a Van Buren di essere stato un esponente del Bauhaus a Dessau – viene accolto in modo divisivo. L’estetica, la scelta dei materiali e molti altri aspetti vengono continuamente messi in discussione. Toth, però, è un architetto non disposto a scendere a compromessi. Inflessibile, ma completamente inventato: numerosi indizi lasciano intendere che forse László sia ispirato alla figura di Marcel Breuer, che non a caso ha studiato al Bauhaus, è ungherese, è brutalista e anche lui, nel 1937, si trasferisce negli Usa dove realizzerà il celebre Armstrong Rubber Building, capolavoro brutalista di New Haven, progettato nel 1967. E a confermare questa ipotesi è lo stesso regista quando afferma che in László Tóth convergono Breuer, appunto, come Louis Kahn, e Paul Rudolph (Le Corbusier non pervenuto).

L’architettura brutalista, il cui nome deriva dall’espressione francese “béton brut” che indica il cemento a vista che la caratterizza, è sempre stata accolta da reazioni contrastanti: va detto che oggi è all’apice di una sorta di “revival“, lanciato già da qualche anno dai social media, dove si trovano moltissimi profili che raccolgono le foto degli edifici più famosi, discussi o improbabili, particolarmente gettonati su Instagram gli spomenik, i monumenti brutalisti della ex Jugoslavia. Nato come movimento in Inghilterra nel secondo dopoguerra, il brutalismo si è diffuso velocemente in tutto il mondo tanto per necessità di ricostruire le città quanto anche come reazione alla “leggerezza” degli stili architettonici precedenti. In Italia alcuni famosi edifici in stile brutalista si trovano a Roma – l’ambasciata del Regno Unito ad esempio, o la palazzina di Piazzale Clodio – ma anche a Trieste, Varese e a Milano, dalla Torre Velasca all’Istituto Marchiondi Spagliardi, capolavoro del brutalismo italiano abbandonato però dagli anni Settanta.

L’abbandono sembra essere una sorte comune agli edifici brutalisti, conseguenza del deterioramento del cemento nel tempo che contribuisce a renderli esteticamente ancora più freddi e alienanti. Proprio su queste sue caratteristiche – l’austerità, la mancanza di luce, il grigio e la “brutalità” dell’estetica, appunto – si basa la critica al movimento brutalista, spesso definito opprimente, se non semplicemente brutto. Ma proprio sulle medesime caratteristiche si basa anche il fascino esercitato ora presso le nuove generazioni affascinate dalla sobrietà, e dalle costruzioni modulari traducibili in suggestivi pattern per computer graphic e foto di arte contemporanea.

Talmente di moda che Donald Trump, tra i primi atti da presidente, ha pensato bene di emanare un nuovo ordine esecutivo per promuove la “bella” architettura federale, rigorosamente classica e tradizionale, proprio in contrapposizione a quella brutalista, da lui già aspramente criticata nel 2020 come "impopolare" e "poco attraente". Con le sue dieci nomination e la polemica che monta attorno a Emilia Pérez, The Brutalist sembra adesso il film favorito alla notte degli Oscar. Al presidente farà piacere?