Si può azzerare la memoria? L’Alzheimer corrode, da dentro, fino a cancellare i ricordi più recenti. Ma non cancella la persona. Nemmeno quando i suoi occhi sembrano spenti, persi nel vuoto, o fissano un determinato punto. Eunice ha convissuto per 14 anni con l’Alzheimer. Ma quando un giorno in televisione ha visto passare l’immagine del suo Rubens, ecco un lampo negli occhi, tutta la vita che scorre davanti, e il fremito prima di pronunciare quel nome che un tempo era familiare. Che è stato tutta la sua vita. Il suo Rubens per cui c’è stato un prima e un dopo: da moglie e da vedova senza il conforto (se può definirsi tale) della legge che accertava la sua morte. Rubens Paiva era un deputato laburista in Brasile, destituito nel 1964 con il golpe, sequestrato a gennaio del 1971, quando la giunta militare aveva diffuso da poco l’atto numero cinque che sospendeva qualsiasi libertà costituzionale. Un desaparecido: torturato nelle carceri dai militari, ammazzato senza che il corpo fosse mai stato ritrovato.
Ora un film, con tre candidature all’Oscar, Io sono ancora qui, ripercorre la storia della prima dittatura in America Latina che non fu meno sanguinaria di quelle che precedette: Cile (1973) e Argentina (1976). Oltre a questo film di Walter Salles che conobbe la famiglia Paiva e la frequentò, c’è anche un libro biografico (a cui s’ispira il film e che è pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera col titolo Sono ancora qui) scritto da Marcelo, l’unico figlio maschio della famiglia Paiva. Il film racconta Eunice con lo sguardo di Fernanda Torres (l’attrice candidata all’Oscar) che non si abbassa mai. Che non smette di fissare l’orizzonte. Che non viene incrinato, se non parzialmente dalle lacrime, nemmeno quando un amico giornalista le dice che Rubens è morto, ma che la giunta militare non lo ammetterà mai.
In fondo è proprio qui lo snodo cruciale della storia personale di Eunice e di quella collettiva del Brasile che ha rimosso forse fin troppo in fretta quel ventennio di dittatura militare (dal 1964 al 1985), considerandolo quasi un incidente di percorso. Eunice – nell’etimologia del nome c’è la parola vittoria (dal greco) – otterrà la sua vittoria solo nel 1995. Ventiquattro anni dopo che Rubens è finito nel buco nero delle carceri brasiliane. La sua vittoria si materializza in un certificato di morte. Così la donna che ha aiutato un Paese a ricordare proprio nel momento in cui il Brasile stesso rischiava di perdere la memoria su quella stagione di sangue e di violenze, dopo aver ottenuto quel certificato di morte inizia lei stessa a perdere la memoria.
Negli occhi di Fernanda Torres c’è la sua storia che le scorre davanti, che è poi la Storia di un Paese che ha conosciuto l’orrore della dittatura che azzerava i diritti delle persone fino a perseguitarle se le considerava nemiche. C’è quindi la memoria da tenere viva che ambisce a diventare una memoria collettiva, condivisa. Ma che è stata invece ignorata o derubricata per troppo tempo: della dittatura brasiliana si è parlato molto meno e si è raccontato molto meno rispetto agli altri regimi militari che presero forma in maniera violenta in quello che all’epoca veniva considerato "il giardino degli Stati Uniti". Eppure artisti come Caetano Veloso e Gilberto Gil furono costretti all’esilio a Londra. Veloso, prima di partire per l’Inghilterra, si fece 54 giorni di carcere. Ma la repressione non era ancora arrivata ai livelli del 1971, quando Rubens Paiva finì in quella cella per uscirne solo da cadavere.
Il merito ora è di riportare alla luce quello che accadde, partendo da una storia familiare intrisa di dolore ma anche di sorrisi per non darla vinta a chi imporrebbe sguardi tristi (come vorrebbero dal tabloid che aveva chiesto una foto di famiglia da mettere in prima pagina). E di conseguenza di fierezza. Eunice, da vedova seppure non certificata dall’Anagrafe di Rio de Janeiro, prenderà una laurea in Legge, per mettere gli occhi e la testa sulle carte reticenti dello Stato sul destino di suo marito. Mentre il film di Salles si concentra sulla torsione autoritaria del Paese, il libro di Marcelo Paiva (scrittore e drammaturgo) racconta un lessico famigliare (per dirla alla Ginzburg) in cui Eunice impartisce un’educazione in cui non viene insegnato da che parte stare, ma come stare al mondo. Anche di fronte all’orrore, alle ingiustizie: che non significa però piegarsi al destino considerandolo ineluttabile.
Gli sguardi fissi di Fernanda Torres, l’Eunice giovane e matura, e quelli di Fernanda Montenegro (nella vita reale figlia e madre, anche lei fu candidata all’Oscar per Central do Brasil, altro film di Salles) l’Eunice affetta da Alzheimer, sono la certezza che non si può dimenticare. Che non si possono chiudere gli occhi per poi riaprirli, pensando che tutto sia passato.