"In fondo, io di lavoro faccio il bambino" assicura un irregolare come Bobo Rondelli parlando del tour nei club che vara stasera al Santeria Toscana 31 di Milano per poi proseguire alla volta, fra gli altri, del Locomotiv di Bologna il 28 gennaio, del Teatro Cartiere Carrara di Firenze il 5 febbraio e degli Impavidi di Sarzana il 7. In repertorio i frizzi e i lazzi dell’ultimo album Storie assurde, collezione di "bischerate" – le definisce così il cantautore livornese – realizzata assieme a una formazione consona all’operazione già dal nome, Musica da Ripostiglio. "Ci ho messo tanto Burlesque, un po’ di Rabelais, storie tragicomiche, parolacce" racconta lui, 61 anni, a proposito del suo lato bambino. "Ma questo non è uno spettacolo imperniato solo sulla goliardia, visto che il disco è arrivato sei mesi fa alla vigilia del tour estivo, mentre ora negli spazi chiusi il repertorio può approcciare anche una certa poetica".
Storie assurde è un’operazione simile all’ Opera buffa di gucciniana memoria. "Fare dischi così può essere considerato anche un fatto politico, perché oggi ti prende la disperazione all’idea di assistere a tanta brutalità, a tanta distruzione, senza avere più nemmeno la voglia di parlarne. Oggi davanti alla tv si assiste a immagini di guerra come a quelle di una partita di calcio. E davanti a tutto questo, ridere, cercare un po’ di evasione, è salutare".
Fra le storie del disco ce n’è una che ama particolarmente? "Bè, Mantenuto fa ridere perché il protagonista, per fare la bella vita, è costretto a saziare le voglie di un’anziana covando un unico pensiero: che pacchia, ma ammazzatemi la vecchia".
Che genere è il suo? "Teatro canzone è un parolone. Però il cabaret a volte è più vero, più sano, se poi dici le parolacce giuste contro le persone giuste, Matteo Renzi ne Il gigolò di Rotterdam ad esempio, un effetto l’ottieni. Un brano l’ho mandato pure a Bocelli, perché un duetto assieme avrebbe risolto i mei problemi con Ecoitalia e offerto a lui la possibilità di mostrarsi sotto un’altra luce, ma probabilmente non era nelle sue corde e così l’ho inciso da solo. S’intitola La chiappona".
Vabbè, parliamo del resto del repertorio. "I pezzi irrinunciabili, quelli che chiamo i miei “ciuchi di battaglia“ perché “cavalli“ mi sembra eccessivo, nello spettacolo ci sono tutti. Anche perché sono pochi. E poi, se Gianni Morandi o Paolo Conte in concerto fanno i loro, chi sono io per rifiutarmi di fare i miei?".
Les Bijoux e Ottavo Padiglione inclusi: lei è sul palco dall’88. "Essere autori di sé stessi stanca. E io ho cominciato dalla più tenera età. Da bambino ero un caso umano. Quando scoprii i Beatles, il mio primo amore, iniziai a vestirmi come loro e a firmarmi Giorgio Arrisoni. Ho sempre fatto tutto da me, senza collaboratori. La mia non è stata una carriera, ma una lotta contro gli inverni russi. Una sfida per non finire in strada al gelo".
Un viaggio, il suo, in direzione ostinata e contraria. "A Livorno sanno chi sono, ma altrove quanti mi conoscono? Come diceva Marcello Mastroianni, tutti vogliono diventare famosi per poi nascondersi dietro a un paio di occhiali da sole. Io no. Il mio lavoro è andare a trovare a giro anime come la mia".
Ma il cinema e la tv qualche effetto l’avranno avuto sulla sua popolarità? "Qualcosa ha mosso la serie tv I delitti del BarLume, la gente mi fermava chiedendo quella canzone del ca**o Ir budello di tu ma che alla fine ho messo pure nel disco. Un pezzo stupido, ma quando l’eseguo la gente fa il trenino regalandomi il piacere di sentirmi scemo in mezzo agli scemi. Uno ci prova a scrivere buona musica, poi arriva una parodia dal sabor brasiliano come quella e diventa un successo. Bene così, però, visto che a me con le canzoni non interessa cambiare la vita delle persone. Mi basta solo rendergliela un po’ più lieve".