La storia italiana più recente è ricca di segreti. E di armadi della vergogna. Uno di questi ha a che vedere con una ferita insanabile: le stragi nazifasciste compiute tra il 1943 e il ’45, spesso contro civili inermi. Parte di quella storia è rimasta sepolta dal 1960 al 1994. È allora infatti che vengono ritrovati in un armadio di Palazzo Cesi-Gaddi, a Roma, 695 fascicoli che contengono denunce e rapporti relativi a crimini di guerra commessi da militari tedeschi o italiani in quel periodo. Il primo a parlarne è stato Franco Giustolisi ne L’armadio della vergogna (Nutrimenti); a seguire la sua scia, Daniele Biacchessi, che nel suo Eccidi nazifascisti. L’armadio della vergogna (Jaca Book) quei fascicoli li ha riaperti confrontandoli con le carte di vecchi e nuovi processi. Ne vien fuori, anche grazie ad alcune preziose testimonianze, un mosaico di verità sacrificate sull’altare della ragion di Stato.
Biacchessi, chi aveva interesse a nascondere la verità? E perché?
"Il 14 gennaio 1960 si arriva all’archiviazione provvisoria di fascicoli contenenti notizie di reato, nomi e cognomi dei responsabili delle stragi nazifasciste tra il ‘43 e il ‘45. Ma quella del Procuratore militare Enrico Santacroce è un’archiviazione totalmente illegale. Nel libro pubblico lo scambio di lettere tra l’allora ministro degli Esteri Gaetano Martino e il ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani, nella quale si sostiene l’inopportunità di alimentare in quella fase storica una polemica contro la Germania, proprio nel momento in cui il governo di Bonn riorganizza l’esercito in funzione anche di scudo atlantico contro l’Est sovietico. Santacroce dipende dalle volontà politiche dell’allora governo guidato da Antonio Segni. Il potere politico gli ha ordinato di occultare la verità e lui ha eseguito. Poteva finire solo così, perché dalla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia è un Paese a sovranità limitata".
Alla luce della sua inchiesta, cosa viene fuori del periodo buio dell’occupazione nazifascista che ancora non sapevamo?
"In primis c’è il riassunto integrale dell’investigazione britannica che forma il corposo documento Report on German Reprisals for Partisan Activity in Italy, rimasto in gran parte inedito. Il rapporto distingue l’uccisione di partigiani in battaglia o la loro morte dopo la cattura, l’esecuzione di uomini innocenti e la distruzione di villaggi come rappresaglia per l’attività partigiana, l’uccisione di vecchi, donne e bambini. E poi erano già scritti i nomi dei repubblichini fascisti italiani che avevano accompagnato i carnefici nazisti nei luoghi degli stermini. Un lungo elenco di assassini che avevano colpito a Forno, Borgo Ticino, Vinca, Bardine di San Terenzo, Valla, che avevano compilato gli elenchi dei 335 martiri delle Fosse Ardeatine, come il Prefetto di Roma Pietro Caruso e il capo del Reparto speciale di polizia Pietro Koch".
Un passo avanti verso la giustizia?
"Nel mio libro ci sono le prove, non gli indizi, che i repubblichini avevano avuto un ruolo attivo nell’organizzazione di stermini contro loro connazionali in gran parte non belligeranti: vecchi, donne, bambini, piccoli ancora in fasce come Anna Pardini a Sant’Anna di Stazzema. C’è la storia di 30mila morti, la cui memoria è stata occultata a causa della ragion di Stato".
Giuseppe Di Matteo