
Il campus della Columbia University di New York occupato in solidarietà con Gaza. In alto, un manifestante pro Israele
Pensiamo tutti di sapere che cosa sia l’antisemitismo: un pregiudizio verso gli ebrei che può tradursi in discriminazione e anche violenza pubblica e collettiva. In Europa lo conosciamo bene, avendo alle spalle una storia costellata di ghetti, leggi antiebraiche, pogrom, fino all’orrore massimo della Shoah. È una storia che non si è mai interrotta e arriva fino ai nostri giorni. Ma c’è ora un “nuovo antisemitismo”, cioè una nuova nozione, più estesa, di antisemitismo, ed è spesso spiazzante. Lo si è visto con grande evidenza nel post 7 ottobre 2023, quando lo stato di Israele ha reagito agli attentati terroristici di Hamas (oltre 1200 morti e molte decine di persone sequestrate) con uno spaventoso, lunghissimo attacco militare alla Striscia di Gaza (50mila morti, la distruzione di quasi tutto).
È andato in scena, nel pieno degli attacchi, un doppio movimento. Da un lato l’accusa al governo e all’esercito di Israele di praticare una forma di genocidio, con tanto di procedimenti aperti alla Corte internazionale di giustizia e alla Corte penale internazionale; dall’altro l’accusa di antisemitismo rivolta dalle autorità israeliane a numerose personalità e organizzazioni. Difficile dimenticare – per citare un paio di esempi – le parole di Benjamin Netanyahu sull’assemblea generale delle Nazioni Unite, definita “una palude antisemita”, o la scelta di dichiarare il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, persona non grata in Israele.
Si è creato, in breve, un clima così teso, così tossico, che lo stigma dell’antisemitismo è stato applicato di volta in volta agli studenti dei campus statunitensi indignati per gli eccidi nella Striscia di Gaza, a organizzazioni come Amnesty International e Rights Human Watch che nei loro rapporti su Israele hanno parlato (come, peraltro, la ong israeliana B’Tselem) di forme di “apartheid” inflitte alla popolazione palestinese, perfino a intellettuali ebrei che hanno sostenuto la causa palestinese e criticato governo ed esercito israeliani.
Tutti antisemiti? Possibile? Valentina Pisanty, semiologa dell’Università di Bergamo, studiosa della memoria della Shoah, ha dedicato al tema un serrato pamphlet – Antisemita (Bompiani) – parlando esplicitamente, già nel sottotitolo, di una parola presa “in ostaggio”. E Donatella Della Porta, docente alla Normale di Pisa (sede di Firenze), in un altro saggio – Guerra all’antisemitismo? (Altreconomia) – scrive che oggi "la lotta all’antisemitismo, inizialmente promossa dalla società civile progressista, è stata trasformata in un apparato statale e in una struttura di potere ufficiale. Questo cambiamento l’ha resa uno strumento di razzializzazione e repressione".
L’accezione estesa di antisemitismo, dice sostanzialmente Pisanty, si basa su una doppia errata equivalenza: Israele = ebrei e antisionismo = antisemitismo. Sono equivalenze forzate e fuorvianti, sostiene, perché si può criticare e avversare Israele e il suo governo senza essere antisemiti, dato che il popolo ebraico non si esaurisce con lo stato nato nel 1948, e perché in contesti democratici e liberali la critica anche radicale a un governo e perfino a un paese dev’essere sempre possibile.
Pisanty fa risalire l’avvento del “nuovo antisemitismo” all’affermazione su scala globale delle destre nazionaliste e alla loro alleanza con l’estrema destra israeliana. Vi sarebbe stato uno scambio politico: il sostegno ai governi “etno nazionalisti“ di Israele in cambio della legittimazione di forze politiche europee che hanno nella loro storia, ma spesso anche nel loro presente, un esplicito “vecchio” antisemitismo (si pensi all’avversione per la figura di George Soros, tuttora rappresentato ricorrendo a consumati stereotipi).
Il passaggio è insidioso, perché c’è il rischio di incentivare anziché contrastare l’antisemitismo, e anche di condizionare e addirittura impedire il dibattito pubblico, come si è constatato nei campus statunitensi con l’intervento delle polizie, e in un paese, la Germania, che più di altri si attiene alla definizione ufficiale di “nuovo antisemitismo” e quindi scoraggia e spesso inibisce dibattiti e iniziative che comportino critiche forti a Israele. Non più tardi del febbraio 2024, i neo premi Oscar Basel Adra (palestinese) e Yuval Abraham (israeliano), autori del documentario No Other Land, nel ricevere a Berlino l’Orso d’oro hanno invocato il cessate il fuoco a Gaza (Adra) e la fine dell’apartheid in Israele (Abraham), subendo pesanti attacchi politici, al punto che il sindaco di Berlino, Kai Wagner, ha affermato: "Non c’è posto nella nostra città per l’antisemitismo". Abraham, annunciando un’azione legale, ha osservato: "Mi addolora vedere come, dopo aver colpito la maggior parte della mia famiglia nell’Olocausto, la parola ‘antisemitismo’ si svuoti di significato per mettere a tacere i critici dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e legittimare la violenza contro i palestinesi".
Pisanty punta il dito soprattutto sulla “definizione operativa” di antisemitismo elaborata nel 2016 dall’International Holocaust Remebrance Alliance e adottata in Israele, Germania e altri paesi. Questa definizione estesa e politicizzata – sostiene la studiosa – è diventata l’asse portante del dibattito in materia, nonostante sia stata fortemente contestata nello stesso mondo ebraico, con l’elaborazione di almeno due definizioni alternative: “Il documento Nexus” (2021) e la “Jerusalem definition on antisemitism” (2021). Scrive Pisanty: "Non è tollerabile, in un contesto democratico, che una delle parole chiave venga prelevata dal lessico, spogliata della sua funzione, rivestita di abiti nuovi, ed esibita al mondo come garanzia di impunità per chi intende affermare le proprie ragioni con la forza, whatever it takes". Ci sarebbe da aprire un dibattito.