È una vicenda storica periferica e dimenticata, avvenuta quattro secoli fa, eppure lo sterminio degli abitanti delle isole Banda, remoto angolo dell’arcipelago delle Molucche, oggi parte dell’Indonesia, offre una potente chiave di interpretazione del tempo presente. Con effetti perturbanti, per usare un vocabolo che ricorre spesso nella narrazione proposta da Amitav Ghosh nel suo La maledizione della noce moscata (Neri Pozza).
Alle isole Banda, dunque, nel 1621 la Compagnia olandese delle Indie Orientali decise di affrontare una volta per tutte ciò che inibiva il pieno sfruttamento di una preziosa materia prima, la noce moscata: scelse cioè di sterminare gli indigeni, fin lì refrattari alla sottomissione. Per Ghosh l’eliminazione di migliaia di bandanesi, giustificata da una pretesa superiorità razziale e ideologica, era "un modo radicalmente nuovo di concepire la Terra come una “grande macchina formata da particelle inerti in moto incessante“". Gli indigeni e la loro cultura potevano essere rimpiazzati "con operai e amministratori che avrebbero trasformato le isole in una fabbrica per la produzione di noce moscata".
Esteso nel tempo e nello spazio, questo paradigma è la chiave della modernità. Ghosh parla di “terraformazione“, ossia di un metodo coloniale di sfruttamento, estrazione, sterminio volto a conquistare con la forza territori e risorse, creando neo-Europe, spazzando via le culture ancestrali e quindi la stretta connessione fra gli umani e la terra e gli altri esseri viventi, ciò che Ghosh chiama "vitalismo", un modo di concepire il mondo opposto alla visione colonialista che è all’origine della società occidentale contemporanea.
"Il progetto di terraformazione – scrive Ghosh – è la concezione del mondo-come-risorsa, in cui i paesaggi (o i pianeti) vengono considerati fabbriche e la “Natura“ è vista come soggiogata e a basso costo". Dal genocidio, dice ancora Ghosh, si passa "all’onnicidio, il desiderio di uccidere ogni cosa".
Nato in India e oggi residente a Brooklyn, quindi sospeso fra Sud e Nord del mondo, Ghosh mostra l’altra faccia del paradigma dello sviluppo e riporta al centro della scena le cosmogonie e i saperi tradizionali, cancellati dalla “terraformazione“, ma tutt’altro che antiquati e inservibili. "Assistendo ai disastri ambientali e biologici che oggi avvengono ovunque sulla Terra – scrive ancora – diventa sempre più arduo pensare che il pianeta sia un corpo inerte che esiste al solo scopo di fornire risorse agli umani". È come se la Terra si scrollasse di dosso, con gli eventi estremi, i suoi aggressori. Per Ghosh le élite globali hanno già scelto di non agire seriamente contro il collasso climatico, perché ciò richiederebbe un cambio di paradigma per loro impossibile: l’obiettivo, semmai, è scaricare sui poveri e sugli abitanti dei Sud del mondo le maggiori conseguenze del disastro ambientale, a costo di militarizzare le nostre società. È ciò che sta avvenendo.
L’"egoismo patologico" che guida l’immaginario dominante, insiste Ghosh, non consente di affrontare l’emergenza climatica, e occorre quindi "ascoltare quelle voci che, pur al cospetto di un’implacabile, apocalittica violenza, continuano cocciutamente a sostenere che i non umani possono e devono parlare. Con il rafforzarsi della prospettiva di una catastrofe planetaria, è essenziale che queste voci non umane ritrovino un posto nelle nostre storie. La sorte degli umani, e di tutti i nostri parenti, dipende da questo".