Alan Sorrenti, come si spiega che dopo 43 anni i giovani ancora ascoltino e canticchino "Figli delle stelle"? "La forza sta nella musica. Allora il brano era molto avanti, non per niente fu realizzato a Los Angeles. C’era e c’è grande energia, grande innovazione, e le cose che hanno energia restano, ma canzoni con quell’energia oggi non ci sono. Inoltre penso che il mio brano contenga un messaggio universale, sempre valido, che trascende i tempi. Gli scienziati hanno dimostrato che noi veniamo proprio da polvere di stelle. Siamo tutti collegati, anche se non ce ne accorgiamo: come quando ti capita di pensare a un amico mentre cammini per strada, alzi gli occhi ed eccolo lì davanti a te".
l brano uscì nel 1977, un periodo di grandi contestazioni, di rivoluzioni sociali, culturali, anche sessuali. Che cosa ricorda? "La parte più calda delle ideologie che si richiamavano a concetti di libertà risalgono in realtà alla prima metà degli anni Settanta, di cui la musica fu protagonista. Allora facevo rock progressivo, anche se non si chiamava così, che si avvicinava alla psichedelia. È stata una grande rivoluzione musicale, molto creativa. Poi è subentrato il business, si è persa l’ideologia di partenza, e si sono creati dei prodotti, anche buoni. In questa seconda metà ho abbracciato nuovi stili musicali, il cosiddetto Los Angeles sound. In effetti per 4 anni ho vissuto proprio a Los Angeles".
Era ancora il periodo degli hippies. "Anche io ero hippieggiante. Ma il look allora non era così fondamentale, ognuno si vestiva come gli pareva. Nella seconda metà degli anni ‘70 invece l’immagine cominciò a essere sempre più fondamentale. Anche la mia produzione si intersecò col fashion".
Quali case, nello specifico? "Ho indossato prima Armani, poi Versace e Gianmarco Venturi. Allora Milano era spumeggiante".
Ci racconti la Milano di quei tempi... "Era il centro della moda, del glamour. Ricordo che una sera mi esibii al Divina, un locale molto di moda allora. Dovevo cantare Figli delle stelle, appunto, e chi c’era accanto a me sul palco? Grace Jones! Che intonò La Vie en Rose. Allora tutto sembrava possibile".
Perché si trasferì a Los Angeles per quattro anni? Che cosa l’affascinava di quella città? "Il lato esotico. Le palme. Appena le vidi, pensai: voglio vivere qui. Allora l’America non era alla portata di tutti, i biglietti aerei costavano, magari prendevi un volo a tappe per risparmiare. Los Angeles era un altro mondo, c’era un’altra atmosfera, un’altra luce. Era tutto mega".
Che ricordi ha di quel periodo a Los Angeles? Incontrò qualche personaggio famoso? "Avevo la fortuna che il mio produttore fosse lo stesso di Al Jarreau. Ricordo che, finita la mia sessione in sala di registrazione, incontravo i Toto, i Doobie Brothers, Tina Turner, Rod Stewart. Un giorno vidi Rod Stewart, allora una stella mondiale, ballare sul tavolo da ping pong".
Lei ha parlato di psichedelia, e ha già detto di aver usato delle sostanze. Fu in quel periodo a Los Angeles? "No, era stato prima, nel periodo del rock sperimentale. D’altronde i Pink Floyd viaggiavano su una dimensione di questo tipo. Gli stupefacenti stimolavano certe cose, erano omogenei a un certo tipo di ideologia. Ma oggi è tutta un’altra cosa. Oggi devi stare attento a quello che prendi, sconsiglio vivamente ai giovani di provare questa strada".
In quegli anni lei era un idolo. Chissà quante ragazze la inseguivano... "Certo, succedeva (è un po’ imbarazzato, ndr). Capitava ma non ero io che cercavo quelle situazioni, perché non mi sono mai sentito una star. Poteva accadere. Per esempio Un incontro in ascensore racconta qualcosa che mi è effettivamente capitato (il brano narra dell’incontro casuale, appunto in ascensore, con una bella sconosciuta che poi si tramuta in una notte d’amore, ndr). Ma la dimensione della star non mi è mai appartenuta, non ne ho mai approfittato. La forza trainante della mia vita è stata scoprire il mondo, e scoprirlo anche attraverso i viaggi".
Qualche episodio memorabile dei suoi viaggi? "In Giappone ho scoperto l’incredibile dignità di questo popolo. Alla stazione di Kyoto avevo fatto un prelievo al Bancomat, faticando un po’ perché era tutto scritto in ideogrammi. Esco, faccio per salire su un taxi, e mi accorgo che non ho più il cellulare. In quel momento sento battere sulla spalla, mi giro, e c’era una signora che mi porgeva il mio iPhone. Me lo tendeva sui palmi aperti, come fosse un’offerta. In Giappone puoi lasciare la valigia fuori, andare in bagno, e quando esci è ancora lì".
Lei è molto legato anche all’Africa... "Una volta in Tanzania ci perdemmo in mezzo al nulla. La jeep aveva l’alternatore che non funzionava, avevamo la guida ma anche lui non sapeva che fare. Riuscivamo a procedere ma molto piano. Scende la notte, e ci accorgiamo che tutt’intorno a noi ci sono delle stelle che ci seguono. Erano gli abitanti di un villaggio vicino che, accortisi della nostra difficoltà, erano accorsi ognuno con una torcia per accompagnarci lungo la giusta strada. Così siamo arrivati al loro villaggio dove ci hanno offerto qualcosa di caldo da bere".
Lei è per metà gallese e per metà napoletano. Cosa ha conservato dell’una e dell’altra provenienza? "Oggi mi sento molto più vicino a Napoli e al Sud. La pandemia ci ha portato a rivalutare la vita, quello di prima per me è il vecchio mondo. Nel nuovo penso che il Sud avrà un grande ruolo, con la sua semplicità nel vivere la vita".
Sta lavorando a qualcosa di nuovo? "Un album con il mio coproduttore Giuseppe Spinelli, di Napoli, con cui c’è grande sintonia. Sarà un album di pop innovativo, con spirito rock. Non escludo un live di "I figli delle stelle" arrangiato però con i suoni attuali. Oggi è difficile fare previsioni, ma dovrebbe uscire in autunno".