Giardini vista mare. Costiera magica
In principio fu l’Isola delle Scimmie. Eh già, si chiamava così, Pithaecousa, l’isola di Ischia, quando i soliti furboni greci per primi capirono che tutto quel fervore sotterraneo e anche sottomarino – il mito del gigante-drago Tifeo, del quale ancora nella morfologia dell’isola si riconoscerebbero le parti del corpo, perfino le più… innominabili – poteva essere manna del cielo per piantare vigne. E dovevano passare ancora diverse centinaia d’anni prima che Virgilio ci raccontasse che “nessun vino può essere paragonato con il Falerno”. Quel Falerno che secondo Petronio Arbitro alla cena di Trimalcione fu servito vecchio addirittura di cent’anni; quel Falerno “puro e resistentissimo” che Cesare beveva a palazzo da Cleopatra, e che offriva per celebrare le sue vittorie. Sì, quel Falerno che nella bottega di Edone a Pompei valeva quattro assi la coppa, contro un misero asse per la bevuta ‘normale’. Basterebbe la storia, quella antica e paludata, per fare della Campania la terra eroica della viticoltura, e non sarebbe comunque poco. Però non basta. Per essere eroi della vigna, ce lo insegnano dall’Alpi all’Etna, ci vuole altro. Fatica, sudore, terra strappata all’impossibile, polvere, rese scarse, genio per inventare. Eh ma in Campania tutto questo c’è davvero, e allora ecco le vigne eroiche. Come in Costiera Amalfitana: sembrano splendidi giardini pensili che si tuffano nel mare, ma quei 90 ettari che nelle tre sottozone – Furore, Ravello, Tramonti: nomi che evocano suggestione di panorami d’incanto – danno a ogni vendemmia sulle 600mila bottiglie in realtà hanno spesso pendenze proibitive, fino al 50 per cento. Un po’ come nelle Cinqueterre: strisce di terra spianate a terrazza e sorrette dai caratteristici muretti a secco, dove tutto si fa a mano, al massimo si porta l’uva in cantina con le motocarriole a cremagliera. Fatica, appunta. Però ripagata, certo: il sole, il calcare del terreno, lo iodio che sbuffa nella brezza marina danno grappoli belli e sani, e la soddisfazione raddoppia quando sai che hai tra le mani uve locali, irripetibili come il Piedirosso e la Ginestra, o il Ripoli e il Fenile che appunto con la Ginestra fanno il blend di un vino icona della Costiera, il Fiorduva di Marisa Cuomo, del resto celebre ovunque anche per il suo Furore. Furore, ma d’altro genere, quello di Raffaele Moccia ad Agnanum, zona Campi Flegrei, vigne strappate al cemento, erte colline sabbiose a dominare l’ipprodromo di Agnano, da scalare di continuo con la vanga in mano. Tutt’altro che furore, invece, se ci si addentra in Irpinia e nel Sannio. Dove la regina incontrastata è la vite, che campa anche cent’anni e più, e s’inerpica, e s’abbarbica ad abbracciare il cerro e la roverella: sono le “tennecchie”, le viti a tendone, e le “alberate”, piante alte anche 15 metri. Roba da giganti. Da supereroi.