Alessandro Gilmozzi, in Val di Fiemme cucina d'alta quota con licheni e radici
Certo che è uno chef. E di valore. Ma è anche un esploratore che tra le sue Dolomiti non si accontenta di andare alla ricerca del senso dei luoghi. Fa di più: cerca di scovare gli ingredienti che la natura mette a disposizione e che Alessandro Gilmozzi ama esaltare nella sua cucina di montagna, ispirata ai consigli che, da ragazzino, gli avevano trasmesso zia Rita e nonno Giovanni, appassionati di botanica e micologia. Un vero rabdomante. E pensare che in giovane età sognava di fare il falegname. "Perché ero affascinato – confessa – dalla manualità degli artigiani capaci di lavorare il legno". Ma si sa, l’arte di trasformare le materie prime è anche uno dei doni elettivi di un bravo chef. E infatti, eccolo a guidare da 30 anni il ristorante El Molin, unico locale stellato della sua amata Val di Fiemme, quella che il 58enne non ha mai pensato di abbandonare "perché – spiega – nulla vale la qualità della vita nel Trentino che va quasi a strofinare l’Alto Adige, incorniciato dalle catene del Latemar e del Lagorai".
Un vero highlander del mondo alpino deciso a non schiodarsi da Cavalese. E del resto Alessandro non potrebbe fare a meno delle resine, delle radici e dei vegetali selvatici, commestibili ed edibili, che sono diventati la sua firma e la sua impronta digitale. E infatti, lo si vede spesso scarpinare tra foreste e altipiani, convinto che la sua mission sia quella di nobilitare alimenti che altri definirebbero ’poveri’. Non lo sono. Non per lui che raccoglie i licheni perché danno carattere alle sue ricette; che utilizza le cortecce per la loro proprietà balsamica; e che adora le pigne di abete rosso, ottime da cuocere alla brace o al vapore e da presentare come pannocchie ai commensali. Per non parlare poi dello speck che lui stesso produce utilizzando carne di suini allevati a oltre 2mila metri di altitudine. O del suo burro di malga al ginepro da servire con il pane fatto in casa, ennesima icona del bel ristorante ricavato in un palazzo cinquecentesco che ospita l’ultimo dei 48 mulini che un tempo funzionavano a Cavalese, annunciato da un pavimento in legno antico che scricchiola sotto i passi degli ospiti. La sua cucina? Ovviamente non convenzionale, metafora applicata di un cuoco che quasi quotidianamente si occupa del piccolo orto di proprietà e del vivaio ad alta quota – il Mas Vinal – dove fare provviste di fiori e di erbe di montagna, complici i fornitori e i contadini che condivide i suoi valori: il recupero delle varietà antiche e la loro tracciabilità. Se n’è accorta anche la Michelin, che dopo avergli riconosciuto la stella ’rossa’ una quindicina di anni fa, nel 2022 gli ha pure assegnato la ’stella verde’ per la sua capacità di estrarre il meglio dalla montagna senza mai offenderla. Come? Giocando con le cotture a bassa temperatura e con le affumicature, rintracciabili nei menù degustazione da 8 o 13 portate che rivelano il suo rapporto con le stagioni. Come l’attuale, sublimata nel risotto con leggera parmigiana rivestito da una cenere di pigna di cirmolo; nel salmerino selvaggio servito su un letto di latte fermentato e resina; nel sorbetto ’Borderline’ a base di resine di abete bianco e larice. E nei racconti che rivelano la personalità di questo chef con i piedi per terra ma anche empatico: che si intenerisce parlando di mamma Giovannina, dei figli, Alessia, Benedetta e Giovanni, della sua compagna Emanuela. E che si carica di responsabilità, come quella che da quasi due anni lo vede presidente degli ’Ambasciatori del Gusto’ che è una delle più autorevoli associazioni italiane dell’alta ristorazione. Alla ricerca di una sua frase- feticcio, Gilmozzi scomoda quella che amava ripetergli il nonno: "Quale sia il problema che devi affrontare, non piangerti addosso". E lui, il profeta della cucina delle Dolomiti, l’ha preso in parola. Convinto che la vita sia come il sottobosco: se vuoi raccogliere il buono che nasconde, devi essere disposto a sporcarti le mani.