Il Cretto di Burri a Gibellina, ricordo del terremoto che devastò la valle del Belice
Ottantaseimila metri quadrati ricoprono quella che una volta era Gibellina, cittadina del Trapanese flagellata, assieme ad altri comuni siciliani, dal terremoto che nel 1968 devastò la valle del Belice, compresa tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani. Catastrofico il bilancio: 370 morti e oltre .1400 feriti. Senza contare i 100mila che rimasero senza casa. Oltre mezzo secolo dopo, a ricordare quella terribile tragedia è la forza straordinaria dell’arte, che dal genio di Alberto Burri ha tirato fuori un incredibile museo a cielo aperto che si fa tutt’uno col paesaggio. A guardarlo dall’alto, il Cretto assomiglia a un delicatissimo ‘lenzuolo funebre’, come scrive Massimo Recalcati in ‘Alberto Burri. Il Grande Cretto di Gibellina’, edito da Magonza e impreziosito dalle splendide foto di Aurelio Amendola. Molto più di una monumentale commemorazione, che tra l’altro non sarebbe nemmeno poca cosa. La città ridisegnata da Burri, infatti, è una tappa fondamentale nel percorso stesso dell’artista umbro, esponente dell’Informale Materico. Ma Burri, che era anche un medico, in molte delle sue opere ha meditato a lungo sulla sofferenza della materia, allegoria della sofferenza umana, e sul tema della ferita, lasciandosi guidare dalla stella polare della sperimentazione. Ferita amarissima fu anche il sisma che rase al suolo Gibellina, fino a quel momento fieramente appollaiata sulle montagne della valle del Belice. All’inizio degli anni Settanta si volle materializzare il sogno di una Gibellina Nuova, che venne ricostruita a una ventina di chilometri dal vecchio borgo. Per regalarle un sorriso, e una nuova vita, l’allora sindaco Ludovico Corrao interpellò il talento di numerosi artisti. E venne anche il turno di Burri. Che però si tenne a distanza dal concerto di progetti architettonici pensato per agghindare la città nuova: a lui interessava il luogo del trauma originario, lacerato dalla voce muta delle macerie e dalle crepe insanabili di un lutto profondo, che aveva squarciato case e famiglie. L’idea era ambiziosa e a dir poco colossale: 90mila metri quadrati di cemento immacolato che avrebbero dovuto inglobare i resti della cittadina distrutta e offrire, attraverso una serie di cubi altri poco più di un metro e mezzo, un reticolo di percorsi nel cuore della vecchia planimetria della Gibellina che fu. I lavori iniziarono nel 1985, ma proseguirono a singhiozzo fino al 2013. Vennero portati a termine solo nel 2015, grazie alla testardaggine della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri a Città di Castello, alla Famiglia Sarteanesi e al Comune. Ciò che oggi rapisce l’occhio è un labirinto armonioso di linee spezzate che non si limita a ripercorrere le orme (e le ore fatali) del sisma - e qui sta la grandezza di Burri - ma è soprattutto la testimonianza viva di un riscatto. “La ferita della morte che diviene poesia”, nota ancora Recalcati. Burri è così: lavora con i resti fisici, e morali, che ha a disposizione e stende il suo “sudario di cemento” su un corpo martoriato. Che continua ancora a vivere. E a parlare.