Federico Ferrari, cucina innovativa con i piedi per terra

Poche parole e molti fatti al ‘Mirepuà’, gioiello dell’Ovadese, trait d'union fra Piemonte e Liguria

di PAOLO GALLIANI
4 settembre 2022

Lo chef Ferrari all'ingresso del suo ristorante Mirepuà

Per carità, non è un Robinson Crusoe della buona ristorazione italica. Semmai un piemontese d’adozione che della terra in cui ha deciso di vivere ha preso tutto: la scarsa tendenza all’estrosità e una certa propensione a lavorare duro e a non sprecare le parole. Peraltro con un duplice vantaggio: abitare nell’Ovadese, a pochi chilometri dalla Liguria e da Genova dove è nato; e fare lo chef in un paesino defilato che è uno scricciolo dell’Alto Monferrato, perché Federico Ferrari lo dice e lo ripete, “la provincia avrà anche i suoi limiti, ma i rapporti umani contano e ovunque ti muovi, trovi produttori di materie prime che in città si sognano”. Che se non è una commovente dichiarazione d’amore, è quantomeno un gigantesco “grazie” al piccolo borgo dove ha appena aperto – il 16 giugno scorso – il suo nuovo ristorante, il “Mirepuà”, traduzione fonetica e italianizzata del termine Mirepoix che nel glossario francese indica il taglio delle verdure e fa pensare ad una cucina con i piedi attaccati alla terra ma, quando serve, anche innovativa. Realista? Per forza. Alla fine i conti devono sempre tornare, tesi che ovviamente condivide con la socia Gaia Fassone. E, si sa, bisogna lavorare sodo per spingere la gente ad andare fuori dalle rotte più battute e mettersi a tavola in una località dove la cosa più rumorosa e bella è il silenzio. Federico svicola sul tema stella Michelin, ben sapendo che la sua vera sfida, in questo momento, è firmare del fine dining comprensibile e non ingessato, in un frammento di regione che molti piemontesi nemmeno conoscono. Tenendo vivi gli insegnamenti ricevuti da mamma Paola e da zia Giovanna che lo avevano instradato verso la passione per la cucina. E non dimenticando l’imprinting appreso, in età giovanile, alla corte di grandi cuochi come Cesare Giaccone, Enrico Crippa e Matias Perdomo: ricerca maniacale delle materie prime, attenzione ai particolari e selezione costante dei buoni fornitori, come quelli che lui frequenta regolarmente: le migliori verdure di stagione da Stefano a Terzo; la fassona e gli insaccati alla Macelleria Premio di Lerma; i formaggi di capra dal signor Vailati a Montalbeo. Il mood? Reinventare la tradizione, amica fedele ma non permalosa. E così, nessuno si stupisce che Federico stravolga l’ insalata russa pur sapendo che in Monferrato (e non solo) è una ricetta religiosamente popolare: al posto dei sottaceti utilizza le verdure del suo orto fermentate e con una serie di escamotage culinari realizza un piatto gourmet eppure più leggero di quanto lo sia abitualmente. Piace anche lo 'Gnocco in farinata' che celebra la sua origine ligure e la bontà dei ceci bolliti e ripassati in padella. Anche se nel ranking delle sue invenzioni spiccano l’Alassio 2012, spaghettone 'mare e monti' con gambero, cipolla del’orto e manteca tura con robiola fresca di capra, e l’agnolotto quadro monferrino che surclassa i famosi Plin e si presenta come un raviolo ripieno a crudo di carne di maiale e manzo, pasta di salsiccia, scarola, borragine e maggiorana. Ci tiene. E lo spiega: cucina sensata, concreta. Che non diventa zavorra alla fine di un pranzo o di una cena. Federico evita gli estremismi barricaderi tipo “meglio l’olio del burro” (per la cronaca, è un grande acquirente di beurre della Normandia). E all’occorrenza estrae dal cilindro chicche golose come ha fatto il giorno dell’inaugurazione del Mirepuà: un’ostrica in tempura con fermentato di frutta e verdura e origano cubano che sa di limone. Certo, mica semplice prendersi la scena in una zona stupenda ma che non ha l’immagine aggressiva e comunicativa delle Langhe. Tasto dolente. Federico s’inalbera sentendo di avere come mission quella di promuovere l’Ovadese e il suo piccolo borgo: “Da queste parti c’è del tartufo strepitoso. Pochi lo conoscono. E poi se lo trovano in vendita ad Alba”. Come dire: Cremolino è e resta una “contrada a parte”, specie per i milanesi e i vacanzieri che sfrecciano lungo l’A26 che ad una manciata di chilometri porta in Riviera. Del resto, non può essere l’ombelico del mondo un borgo arroccato su uno sperone roccioso che fatica a superare il migliaio di abitanti, pur vantando monumenti del passato notevoli e un vista sui vigneti che è una delle emozioni gratuite per i clienti del bel locale di via Umberto I. Tant’è. Lo chef 32enne, istintivo e poco cerebrale, lo ha anche scritto nel proprio sito Web: “Ogni cosa muta, nulla si vanifica”. Pragmatico. E, da buona Bilancia, incontentabile. Il vero archetipo di Cremolino, piccola “fine del mondo” nella geografia piemontese. E nuova Capo Horn dell’esplorazione gourmet.

Il consiglio

Una sosta la città dell’acqua bollente la merita sempre. Non foss’altro per una passeggiata nel centro con le sue vie lastricate e la canonica visita alla fontana, circondata da un’elegante edicola settecentesca, da cui sgorga un acqua bromo sulfurea alla temperatura di 70 gradi