Riccardo Camanini, l’elegante rivoluzione
Ci sono luoghi che hanno la magia del grand’angolo, della vista mozzafiato, della bellezza orizzontale. E quando Riccardo Camanini si presenta all’appuntamento al “Lido 84”, a bordo di un vecchio Maggiolino Cabriolet capisci quanto debba risultargli assurda l’idea che un giorno possa andarsene dalla vecchia darsena di Gardone dove nel 2014 aveva avuto l’idea di posare le valigie, dopo avere acquisito le prime nozioni di cucina in Franciacorta al fianco di un tale Gualtiero Marchesi e raggiunto Parigi perché, insomma, imparare da Alain Ducasse i segreti della grande cuisine française era come muovere i primi passi di danza alla Scala. Riccardo sorride, ammettendo che la vita non è stata poi così avara con lui. Di primo acchito introverso, schivo e stanziale, ma poi, nel suo bel ristorante pieds dans l’eau con affaccio sulle acque del Benaco, si rivela per quello che è: un signore dell’alta cucina italiana, quella vera che si esalta più nelle materie prime fornite dai piccoli produttori che in quelle che arrivano dalle lavorazioni industriali, come pare di intuire notando come questo 48enne dalla silhouette invidiabile e dall’aria vagamente monacale sia riuscito fino ad ora a dire di no – come scelta etica - alle svariate proposte di sponsorizzazione che lui rifiuta educatamente “perché amo sentirmi indipendente”. Nel giorno di riposo, si diletta a fare gli onori di casa, assieme al fratello Giancarlo che al Lido 84 è il regista e l’uomo dell’accoglienza e alla signora Rosanna che ha il pollice verde e ha aggiunto un tocco femminile al locale dei figli già impreziosito da piastrelle disegnate da Giò Ponti, da preziose porcellane Ginori, dall’attracco per le barche e dalla sorprendente “Torretta” angolare dove un tempo i pescatori posavano i loro attrezzi, a un niente da alberghi e ville elitari allineati sul lungolago e dal Vittoriale tanto caro al D’Annunzio. E davanti ad un ottimo spaghetto con sugo di pomodoro “preparato in famiglia”, Riccardo abbandona un po’ della sua per tessere l’elogio della lettura, convinto che per uno chef non ci sia nulla di più intrigante che divorare brani di saggezza gastronomica, specie quelli che arrivano dal passato remoto, perché – ripete – “Siamo quello che siamo stati”.
“Ho imparato moltissimo lavorando con gli chef che ho avuto la fortuna di avere per maestri. Di sicuro Marchesi, quando ero giovanissimo e non avevo le idee chiare: l’eleganza e l’armonia, che emozione! E poi la Francia a ripetizione, specie da Ducasse dove ho affinato gusto e tecnica. Eppure, a provocare in me la passione per questo mestiere sono stati i libri, i testi sacri di gastronomia e le ricette elaborate nel ‘500 da Bartolomeo Scappi. Ne sono convinto: nella cucina non s’inventa nulla. Nella migliore delle ipotesi, si rielabora”. Una rivoluzione permanente… “In un certo senso è così. Ho i mie piatti-bandiera che non escono mai dalla carta: come lo spaghetto unto in rosso, con un tipo di pasta che ha il dono di una certa callosità e con un concentrato di pomodoro preparato a mano da un commovente contadino siciliano. Ma mai come in questi ultimi tempi ho sentito il bisogno di migliorare, ad esempio nella preparazione di verdure e legumi. Ed è stato illuminante l’incontro con alcuni giovani gardesani che nei loro orti coltivano topinambur, cavoli e cavolfiori strepitosi. Li assaggi. E capisci la differenza abissale con gli analoghi prodotti che arrivano da colture intensive”. Lei non sembra adorare lo show. Ma il suo “Cacio e pepe in vescica” è una mezza provocazione… “Fatale, anche qui, è stato un libro. Per l’esattezza, il “De Re Coquinaria”, nel quale Marco Gavio Apicius, più di duemila anni fa, parlava della vescica di maiale come possibile contenitore di alimenti da fermentare per i soldati romani nelle colonie. Ho deciso di rifarmi a lui con una ricetta di pasta italiana romanissima come il Cacio e Pepe. Un lavoraccio in termini di preparazione e cottura. Ma l’effetto è forte: la vescica rilascia un piacevole e caratteristico profumo e la pasta guadagna in aroma”. Anche se sono altri i piatti che hanno fatto breccia oltre frontiera. “In effetti. Una mia ricetta è finita nella carta del ristorante al MoMa di San Francisco. E mi ha sorpreso che, anni fa, sempre lui, Alain Ducasse, citasse tra i suoi piatti preferiti i miei spaghettoni con burro e lievito”. Insomma, si conceda pure un po’ di vanità. Non è mica un peccato mortale “Il complimento più bello? Arriva dai clienti che davanti ad un piatto che hanno appena apprezzato, chiedono il bis. Cosa ci può essere di più gratificante? Nulla. E il merito è dell’immenso patrimonio gastronomico del nostro Paese. Lo ripeteva anche il mitico Paul Bocuse: la cucina italiana sarà la più grande del mondo quando si accorgerà della versatilità dei suoi territori”. E, detto da un francese, … Fuor di metafora, il suo risotto all’aglio nero fermentato è diventato una success story dell’alta cucina “E pensare che l’avevo creato nel 2014 come un gioco per onorare la richiesta dell’artista Stefano Bombardieri di esporre una ventina di sue opere al Lido 84. Avevo notato che vestiva spesso abiti neri e ho pensato a questa soluzione come dedica: un risotto appunto con aglio nero nella fase della mantecatura, peraltro ricorrendo ad una pratica che nella mia cucina è assai rara, quella della fermentazione. Curioso: inizialmente avevo captato sentori di cioccolato e mi sono trovato con un piatto che rivelava un’inaspettata nota di fungo secco porcino”. Da fotografare. Anche se immagino che la infastidiscano i clienti che, quando arriva il piatto in tavola, si attardano a mangiare per fare scatti da postare sui social. “La trovo una pessima abitudine. Il gusto ha un suo apice e un suo timing precisi. Insomma, c’è un momento ottimale per apprezzare una pietanza. Pensi allo spaghetto al burro: dopo un minuto ha già perso molto della sua bontà”. Lei deve pure fare il miracolo: nobilitare il pesce di lago. Gli esperti di fine dining lo considerano sempre un ripiego “Pregiudizi! C’è chi mi procura le sarde che io cucino ispirandomi alla tradizione dello spiedo bresciano: dopo 4-5 ore sulla brace, sono una delizia. La verità è che, per uno chef, il Garda è un Eden: ci sono agrumi, ottimi vini, erbe aromatiche. E pescatori che ti consegnano il meglio della giornata. Cosa pretendere d’altro?” Beh, ad esempio, esibirsi in una piazza come Milano. “Non mi sentirei a casa mia. Le proposte per aprire un locale all’ombra della Madonnina non sono mancate e ne sono arrivate anche da Qatar, Giappone e Russia. Per carità, non voglio determinare il futuro. Ma per ora m’interessano altre cose: trovare più tempo per me e raggiungere nuovi equilibri dal punto di vista umano”. Diamine, non sente il bisogno di affrancarsi dai limiti inevitabili della provincia? “Perché dovrei? Resto il figlio di contadini che ha finito per innamorarsi di questo mestiere leggendo libri e avendo la chance d’incontrare grandi maestri. E rimango l’artigiano che si stupisce sempre dell’attenzione che gli viene rivolta. Del resto, la mia vita è nella cucina del Lido 84, davanti ad un lago che è un piccolo mare. In queste belle giornate, nelle ore pomeridiane, tutti organizzano il rito dell’aperitivo. Io e mio fratello Giancarlo abbiamo qualcosa in più: la possibilità di tuffarci in acqua direttamente dai bordi del nostro ristorante; nuotare tra le folaghe; e avere l’illusione, in poche bracciate, di prendere il largo”. Salvo poi tornare alla fatica serale e alla cena per gli ospiti. Prima del sonno ristoratore. “Verissimo. Ed è un lavoro che assorbe ogni energia. Ma c’è un’accortezza che è una pillola di saggezza: per riposare e fare buoni sogni, niente di meglio di un buon libro sotto il cuscino. Ovviamente, di cucina”.