Philippe Léveillé: «L’Italia c’est moi!»
Ha l’aria di essersi spesso chiesto “Cosa ci faccia io qui?”, proprio come capitava allo scrittore e viaggiatore Bruce Chatwin in Patagonia. Del resto, è naturale cambiare continuamente prospettiva e paesaggio quando nasci e cresci in una terra – la Bretagna – dove in sole 12 ore può piovere tre o quattro volte e ogni volta uscire un sole abbagliante. Philippe Léveillé se l’era anche andata a cercare, facendo dell’attività umanitaria con la Croce Rossa in Paesi come Yemen, Somalia, Etiopia e attraversando più volte l’Atlantico in barca a vela manco fosse un lago, per ritrovarsi, un giorno, ad accettare l’improbabile invito di uno chef italiano, il compianto Vittorio Fusari, che lo invitava a raggiungerlo e a lavorare con lui a Iseo. È lui stesso a ricordarlo, confermando nella parlata schietta e nel linguaggio del corpo la sua origine francese: la “erre” moscia, la “a” che vicino alla “n” tracima inevitabilmente in “o” e la sua bella faccia da moschettiere del re o da uno dei personaggi “Alla ricerca del tempo perduto” usciti dalla penna di Marcel Proust. “Che esperienza! Arrivai a Rovato in una terra, la Franciacorta, di cui non avevo mai sentito parlare e appunto mi chiesi cosa diavolo ci facessi lì”, spiega monsieur Léveillé, accennando all’incontro successivo e decisivo con Mauro Piscini e scomodando, per lui, parole come amicizia, stima e sentimenti che avrebbero segnato la sua esistenza al “Miramonti l’Altro”, il suo ristorante bistellato a Concesio, nascosto in una bella villa di campagna, a metà strada tra Brescia e la Valle Trompia. “Sono un uomo fortunato. Ho vissuto tante esistenze in giro per il mondo e alla fine ho trovato la mia dimensione ottimale in una terra – il Bresciano – che non avrà l’oceano, il vento, le maree o la cultura celtica della mia Bretagna ma curiosamente me li ricorda”. Del resto, lei ha fatto il miracolo: francese, è diventato un profeta della grande cucina italiana, firmando tra l’altro uno dei risotti più sorprendenti che si possano assaggiare nel Belpaese… “Lo aveva creato mia suocera, la signora Mary e da decenni non esce dalla carta. Il segreto? Gli ingredienti: il Vialone Nano che tiene meglio del Carnaroli, cotto in brodo vegetale, gli stimmi di zafferano e una crema di formaggella di montagna che dà la struttura assieme ai funghi di stagione”. Alcuni suoi piatti sono diventati iconici tra i gourmet, come lo spaghetto nero Splash con burrata e calamari, il Cubismo di bollito e il Cotechino al cucchiaio. Ma l’abbondante utilizzo che Lei fa del burro rivela più la connotazione transalpina che quella italica “Lo ammetto: non posso fare a meno del burro che acquisto proprio nel Nord della Francia. Scelta poco salutare? Non è vero. Molti pensano che in una cucina leggera non possa trovare spazio. In realtà dipende dalla qualità e dalla cottura. Le cito un dato: in Bretagna il consumo di burro è elevatissimo. Eppure in Europa è tra le regioni dove la gente ha il tasso meno elevato di colesterolo”. Anche le ostriche alla birra sono un omaggio alla maestosa Baia di Mont Saint Michel che l’ha vista crescere. “Mi piaceva l’idea di unire alla bontà delle huîtres dell’Atlantico una lager leggera e studiata con il mio amico bresciano Cesare Rizzini che, in fase di fermentazione, potesse assorbire i sapori salmastri delle ostriche. L’idea di fondo? Abbinare alle ostriche non più lo Champagne o le bollicine ma appunto una birra con una certa salinità. Strano? Forse. Ma è già diventato uno dei must del Miramonti l’Altro”. Un mito assoluto… “Paul Bocuse. Anni fa ero stato invitato a Lione per spiegare ai colleghi francesi come gli italiani sapessero fare mirabilie con il risotto. Ero suo ospite e non stava benissimo ma ebbi modo d’incontrarlo. Si felicitò con me e mi fece assaggiare il suo filetto alla Rossini. Mi creda: mi sono commosso fino alle lacrime”. Non sarà che le donne che lavorano con lei a Concesio hanno smussato certe sue spigolosità e fatto emergere il Philippe più emotivo? “In effetti al ristorante sono circondato da presenze femminili. C’è mia moglie Daniela che mi dà stabilità e ha la pazienza di sopportarmi. E, da 8 anni, con me lavorano due giovani cuoche come Arianna Gatti e Martina Spera che sono dei veri talenti”. Come tutti i grandi chef, anche Lei può avere un forte ruolo sociale “È una cosa a cui tengo molto. Detto questo, non mi chieda a quali attività di charity abbia partecipato o voglia prossimamente aderire. L’autocelebrazione di chi fa del bene la trovo insopportabile. E comunque non è nel mio stile. Posso aiutare qualcuno? Lo faccio. E non ho bisogno che se ne parli”. [qode_simple_quote text_title_tag="h3" author_title_tag="h3" simple_quote_text="«Sono un uomo fortunato. Ho vissuto tante esistenze»"]Il ristorante Miramonti l'Altro - Foto di Nicolò BrunelliAma spesso ricordare l’incontro con alcuni personaggi transitati per il suo bel ristorante “Uno su tutti, Luigi Veronelli. Veniva al Miramonti e restavo ad ascoltarlo per ore cercando di prendere il meglio di quest’uomo così innamorato del terroir, del buon cibo, del vino e dell’olio extravergine”. Si direbbe che la provincia sia il suo territorio preferenziale e che, seppure potendo, non andrebbe mai ad aprire un locale – che so? - a Milano… “Per carità. Mi sentirei in gabbia. Non è snobismo. Ho semplicemente bisogno di spazi, ossigeno, relazioni con gli altri più naturali”.