Mattia Bianchi, l'arte nel piatto

di PAOLO GALLIANI -
14 febbraio 2023
Chef Matia Bianchi

Chef Matia Bianchi

È incredibile come la vita ti porti spesso in luoghi fantastici del pianeta e poi riesca a riportarti nel posto che vale più di ogni altro, perché è quello dove stai meglio: a casa tua. Peraltro, a fare il mestiere che avevi sognato quando portavi ancora i pantaloni corti e nonno Angelo insieme a nonna Carla, sfamava mezzadri e contadini proponendo pane, vino, soppressa e pasta fresca.
Insomma, pura evidenza: Mattia Bianchi era un predestinato. E adesso che è l’executive chef del ristorante 'Amistà' in un albergo di prestigio come il Byblos Art Hotel, nell’alto Veronese, non dimentica nulla. Anzi, ci tiene a ricordarlo: in giro per il mondo, giovanissimo, per imparare i segreti della professione e, già che c’era, anche l’inglese, per poi capire che viaggiare è una meraviglia ma fare quello che si desidera, nel posto dove sei nato e cresciuto, lo è ancora di più.
Appunto, la Valpolicella. E ascoltandolo, ci si rende conto di quanto ci sia di questo territorio e del Veneto che lo circonda nella narrazione di questo 34enne, come rivelano alcuni suoi piatti: come il 'Gnocco di fioreta', affioramento di ricotta glassata con foie gras ed erba cipollina; come i 'Tortelli di erbe amare con peri trentossi e formaggio dei Monti Lessini'; o come le 'Seppioline al nero con brodetto di pesci lagunari'. Se è per quello, c’è anche il 'Baccalà 2030'  (nella foto) che non esce mai dalla carta: lo stoccafisso alla 'Vicentina' evocato attraverso una salsa frullata ma curiosamente abbinato ad un pesce diverso, il Glacier 51 che arriva dai freddi mari australi. Tant’è.  È una cucina di livello. Ma senza la superbia che uno si aspetterebbe in una location simile, dove tutto è curato e niente è banale, come se l’art de vivre tipicamente veneta trovasse la sua sublimazione proprio qui, in questa splendida villa del ‘500 ristrutturata dal designer Alessandro Mendini. Sorprendente. Mica facile lavorare in un luogo esclusivo riuscendo a firmare una cucina porosa e inclusiva, che si guarda attorno: che dà del 'tu' a contadini e piccoli produttori e diventa ambasciatrice di una contrada, a torto identificata principalmente come 'terra dell’Amarone'. Per carità, un vino-mito e lui, Mattia, lo sa bene, tant’è che lo utilizza sovente nei suoi piatti. Ma c’è tanto altro che giustifica il viaggio nell’alto Veronese, dove l’executive chef di Amistà ha le sue radici e se le tiene ben strette.
Come rivela sciorinando nome e cognome di chi gli fornisce le tenere carni di 'pecora brogna' e i prodotti caseari dei Monti Lessini; e mettendo in carta percorsi di degustazione che omaggiano la tradizione veneta rigenerandola in veste contemporanea. E tutto, fatto ad arte. Quasi a trasferire anche in cucina il concept di un albergo dove i capolavori abbondano, tra arredi e complementi di Gio Ponti, Philippe Starck e Patricia Urquiola, opere di Marina Abramovic e Anish Kapoor e il gigantesco lampadario Ca’ Rezzonico in vetro di Murano di Barovier e Toso. Con la complicità del pastry chef Pietro Recchia, arrivano ai tavoli perfino la curiosa 'Fake Campbell’s Soup', gelatina combinata con spuma al caprino e meringhe che celebra Andy Warhol; e il 'Cubismo' che si ispira alla 'donna con collier' di Pablo Picasso, ricotta di Seirass, pere in osmosi, gel di caramello. E sempre, omaggiando la tradizione locale, pur senza scadere nel 'sovranismo gustativo', questo no, perché Mattia è e resta un giovane esploratore, che dopo l’utilissima esperienza alla corte di Bruno Barbieri (ristorante Arquade di Verona), aveva affinato tecnica e talento in ristoranti blasonati di una world city come Londra e di un Paese come l’Australia dove la cucina è impregnata di contaminazioni asiatiche, esattamente quelle che lo chef di Amistà riprende in certe pietanze dall’acidità spiccata e dal gusto sapido noto come Umami.
L’amicizia? Apprezza quella con il tristellato Enrico Bartolini per cui - confida - ha un’ammirazione infinita. E la famiglia? C’è eccome, anche se il tempo libero è sempre avaro con i cuochi stellati che dirigono locali di alta reputazione. S’intenerisce raccontando delle frequenti escursioni con la sua compagna, Deborah e con i loro due figli, lungo la ciclopedonale che costeggia l’Adige tra Pescantina e la città di Romeo e Giulietta. E a chi gli domanda quale sia il suo motto preferito, risponde citando l’hashtag 'One team, one dream' che non ha bisogno di traduzione. Con tanto di dedica al gioco di squadra con i giovani che in cucina lavorano con lui. Retropensiero più palese che sottinteso: la stella Michelin arrivata nel 2019 in Valpolicella non è solo di Mattia Bianchi. È di tutti.