Ettore Bocchia, la cucina è scienza applicata all'arte

di PAOLO GALLIANI
28 marzo 2021

Chef Bocchia

«La cucina molecolare non è altro che saper far bene un piatto di spaghetti al pomodoro». Un’indispensabile premessa per sgomberare il campo da chi crede che chissà quali astruse tecniche si celino dietro questa che, diventata etichetta, ha generato strampalate idee anche tra gli addetti ai lavori. A raccontare cosa sia è chi in Italia per primo ha tracciato le linee guida di questo approccio, ovvero Ettore Bocchia, stellato di origini emiliane, da una vita al Grand Hotel Villa Serbelloni in quel di Bellagio, un luogo splendido affacciato sul lago di Como all’incrocio dei due rami. Raffinati intenditori da tutto il mondo si mettono in lista per sedersi ai tavoli del Mistral, il ristorante nel libro rosso della Michelin, e quando finisce lo stupore per la grande bellezza che si ammira guardando oltre le grandi, antiche vetrate inizia quella per le portate che si succedono in un’escalation di sapori e di colori. Ma se vi aspettate effetti speciali, piatti fumanti azoto liquido o bizzarre composizioni dai nomi impossibili, rimarrete delusi. Bocchia è prima di tutto un maestro del rigore, che sa coniugare con precisione millimetrica ingredienti e tempi di cottura per valorizzare materie prime di eccellenza assoluta. Il suo approccio scientifico, la necessità di saper governare ogni singolo secondo che accompagna la preparazione di un piatto, non ha appannato in alcun modo l’amore per la terra dove è cresciuto, quel triangolo d’oro del Parmense compreso fra Soragna, Samboseto e Busseto. E lo si capisce quando afferma con convinta passione che "non c’è tecnologia migliore del mattarello e del tagliere di legno per tirare la sfogli". Ma per questo, come per qualsiasi lavorazione, devi sapere quello che fai. Il suo approccio, soprattutto quando ne delineò le linee guida, ha suscitato entusiasmo ma anche perplessità. Oggi cosa ne pensa? «Penso che la cucina molecolare sia più che mai attuale, oggi più di quanto lo fosse quando nel 2002 a Erice iniziai, affiancato da chimici e fisici, a sperimentare nuove strade. Dicevano che ero un pazzo, che la cultura non si mangia». E invece... «Se non si conoscono i procedimenti e i processi che accompagnano ogni lavorazione non potrai mai sapere quello che sarà il risultato. Prendiamo, ad esempio, la preparazione di un uovo fritto: ci sono venticinque diversi modi per farlo, varianti determinate dall’equilibrio che creo sulla base delle molecole delle proteine dell’albume, delle lecitine del tuorlo trovando un equilibrio fra grassi e temperatura». Qual è la ragione che l’ha convinta della necessità di andare in questa direzione? «La necessità di inventare un nuovo linguaggio perché quello creato da Auguste Escoffier era oramai obsoleto: chimica e fisica sono fondamentali quando si compone un piatto, bisogna tener conto delle diverse componenti, trovare l’equilibrio tra gusti primari, retrogusti, texture, cromaticità e geometrie...». Scientificità, ma anche arte? «Diceva Picasso: "Ora che ho appreso le tecniche di Raffaello posso tornare a dipingere come un bambino". La cucina è la stessa cosa. Fondamentale sapere, ad esempio, che la clorofilla si fissa alla tal temperatura, stesso discorso per l’emoglobina. Devi conoscere, sapere se vuoi, ad esempio, cuocere un pesce mantenendo inalterate le proprietà nutrizionali». E la creatività? «Il mio può sembrare un discorso freddo, ma non lo è. Solo se sai quello che fai puoi ottenere il meglio e io lavoro per servire eccellenza». A chi la critica cosa risponde? «L’unico mezzo che ha l’uomo per evolversi è la tecnica: quando hai prodotti che rappresentano l’autentica eccellenza l’unica cosa che puoi fare è rovinarla, se non conosci le procedure e non sai quelle che sono le interazioni del fuoco e dell’acqua con il prodotto. Noi siamo da sempre una nazione di allenatori di calcio e da qualche anno anche di chef. Accetto la critica, ci mancherebbe, serve per migliorare, ma a volte mi dà anche fastidio quando non si basa su premesse serie». Il suo ultimo libro, come recita il titolo, è dedicato all’essenza dell’invisibile. A cosa si riferisce? «Quando si tratta un prodotto devi riuscire a coglierne la parte invisibile. Facciamo un esempio, molto semplice, legato al mondo contadino ovvero come  si valuta la qualità di un salame? Passa attraverso l’analisi del sale, del pepe, del tipo di macinatura, della temperatura della carne mentre passa all’interno del tritacarne e dell’aglio. Senza dimenticare, come ovvio, che l’animale deve essere stato allevato nel migliore dei modi. Anche un gesto umile come mangiare una fetta di salame diventa nobile. Diceva Angelo Gaia: . Per tutti i prodotti devi avere la cultura necessaria per poterli giudicare, per capire se esiste o meno quella parte invisibile che lo porta a elevarsi fino a diventare eccellenza». [qode_simple_quote text_title_tag="h3" author_title_tag="h3" simple_quote_text="«La conoscenza dei processi chimici e fisici è indispensabile per valorizzare le materie prime senza correre il rischio di rovinarle»"]Quando ha capito che questa sarebbe stata la sua strada? «Da sempre cerco per prima cosa di arrivare a capire come funzionano le cose. Poi ho avuto la fortuna di crescere nel Parmense, nella campagna dove i contadini quando finivano di lavorare nei campi si fermavano da Cantarelli a mangiare due fette di culatello accompagnate da un buon bicchiere di vino». Chi era Cantarelli? «Peppino Cantarelli, insieme a Mario Soldati e a Gianni Brera, ha scritto la storia della ristorazione italiana. Era lui che dava da mangiare a Ligabue, che lo pagava portandogli i suoi nuovi quadri quando arrivava da Viadana. Da lui si sono fermati un anno, mentre giravano Novecento di Bernardo Bertolucci, Gerard Depardieu e Robert De Niro. Io vivevo lì, in un paesino di mille anime, dove ci si conosceva e ci si aiutava tutti, partecipando ognuno alla vita degli altri».

I NUMERI

1991

L’anno in cui Ettore Bocchia ha ottenuto la prima stella Michelin per il Mistral al Grand Hotel Villa Serbelloni a Bellagio

2002

La cucina molecolare italiana, di cui Ettore Bocchia è il padre, inizia a svilupparsi a Erice: chef e scienziati insieme ai fornelli Ritiene siano state formative queste esperienze? «Sono cresciuto nell’epicentro della cucina moderna italiana. All’epoca c’era Guido di Costigliole nel Cuneense, la Locanda dell’Angelo a Sarzana. e Salsomaggiore era una delle capitali della dolce vita italiana, insieme a Portofino e a Santa Margherita Ligure con il mitico Covo di Nord Est. Avevo quattordici anni, frequentavo l’Alberghiero, e già iniziavo a farmi le ossa nella stagione estiva nelle trattorie. Facevo gli extra, da cameriere o in cucina, dove c’era bisogno. Ma in definitiva sempre a contatto con l’eccellenza». E crescendo? «Lavoravo d’estate e negli altri mesi investivo tutto quello che avevo guadagnato dedicandomi allo studio, frequentando scuole e ristoranti di altissimo livello in Francia, Stati Uniti e Giappone. Lì capivo che non ero capace di far da mangiare e capivo che dovevo studiare, apprendere. Per questo ho frequentato i corsi di Pierre Hermé, colui che ha formato i più grandi pasticceri del mondo che mi ha fatto conoscere nuove tecniche e nuove tecnologie, poi  ho lavorato al fianco di Gaston Lenôtre a Parigi, che è stato uno dei grandi maestri della cucina nel mondo, per arrivare a 33 anni a dirigere la cucina del Grand Hotel Villa Serbelloni». Un punto di arrivo? «Sì certo, conquistato lavorando sodo e studiando molto, ma non voglio annoiare con storie da libro Cuore. C’è ancora tanto da fare, anche per chi produce prodotti di eccellenza, i più colpiti dalla pandemia e che lavorano inseguendo il sogno della perfezione. Irragiungibile, forse, ma provarci è la mia missione».

Il Grand Hotel

Da villa a 5 stelle

Ettore Bocchia, chef stellato dal ‘91, guida le cucine del Grand Hotel Villa Serbelloni, l’unico 5 stelle lusso di Bellagio, dal 1918 di proprietà della famiglia Bucher. Una storia che in 100 anni ha attraversato quattro generazioni alla guida dell’albergo, iniziata con Arturo, proseguita con Rudy, poi con Gianfranco e la moglie Dusia, fino a Jan Bucher, da due anni direttore dell’hotel. Due i ristoranti aperti al pubblico in quella che resta una tra le più belle dimore nobiliari che si affacciano sul lago: il Mistral e La Goletta. L’anno passato la stagione è stata in parte compromessa dalla pandemia, mentre quest’anno l’apertura è prevista nei prossimi giorni, in concomitanza con le festività per la Pasqua. Una ripartenza che risente dell’incertezza generale, ma che beneficia dell’esperienza maturata nel corso del 2020, quando l’apertura è avvenuta il 4 luglio. Grand Hotel Villa Serbelloni Ristoranti Mistral e La Goletta Via Roma, 1 22021 Bellagio (CO) www.villaserbelloni.com