Ettore Bocchia, la cucina è scienza applicata all'arte
«La cucina molecolare non è altro che saper far bene un piatto di spaghetti al pomodoro». Un’indispensabile premessa per sgomberare il campo da chi crede che chissà quali astruse tecniche si celino dietro questa che, diventata etichetta, ha generato strampalate idee anche tra gli addetti ai lavori. A raccontare cosa sia è chi in Italia per primo ha tracciato le linee guida di questo approccio, ovvero Ettore Bocchia, stellato di origini emiliane, da una vita al Grand Hotel Villa Serbelloni in quel di Bellagio, un luogo splendido affacciato sul lago di Como all’incrocio dei due rami. Raffinati intenditori da tutto il mondo si mettono in lista per sedersi ai tavoli del Mistral, il ristorante nel libro rosso della Michelin, e quando finisce lo stupore per la grande bellezza che si ammira guardando oltre le grandi, antiche vetrate inizia quella per le portate che si succedono in un’escalation di sapori e di colori. Ma se vi aspettate effetti speciali, piatti fumanti azoto liquido o bizzarre composizioni dai nomi impossibili, rimarrete delusi. Bocchia è prima di tutto un maestro del rigore, che sa coniugare con precisione millimetrica ingredienti e tempi di cottura per valorizzare materie prime di eccellenza assoluta. Il suo approccio scientifico, la necessità di saper governare ogni singolo secondo che accompagna la preparazione di un piatto, non ha appannato in alcun modo l’amore per la terra dove è cresciuto, quel triangolo d’oro del Parmense compreso fra Soragna, Samboseto e Busseto. E lo si capisce quando afferma con convinta passione che "non c’è tecnologia migliore del mattarello e del tagliere di legno per tirare la sfogli". Ma per questo, come per qualsiasi lavorazione, devi sapere quello che fai. Il suo approccio, soprattutto quando ne delineò le linee guida, ha suscitato entusiasmo ma anche perplessità. Oggi cosa ne pensa? «Penso che la cucina molecolare sia più che mai attuale, oggi più di quanto lo fosse quando nel 2002 a Erice iniziai, affiancato da chimici e fisici, a sperimentare nuove strade. Dicevano che ero un pazzo, che la cultura non si mangia». E invece... «Se non si conoscono i procedimenti e i processi che accompagnano ogni lavorazione non potrai mai sapere quello che sarà il risultato. Prendiamo, ad esempio, la preparazione di un uovo fritto: ci sono venticinque diversi modi per farlo, varianti determinate dall’equilibrio che creo sulla base delle molecole delle proteine dell’albume, delle lecitine del tuorlo trovando un equilibrio fra grassi e temperatura». Qual è la ragione che l’ha convinta della necessità di andare in questa direzione? «La necessità di inventare un nuovo linguaggio perché quello creato da Auguste Escoffier era oramai obsoleto: chimica e fisica sono fondamentali quando si compone un piatto, bisogna tener conto delle diverse componenti, trovare l’equilibrio tra gusti primari, retrogusti, texture, cromaticità e geometrie...». Scientificità, ma anche arte? «Diceva Picasso: "Ora che ho appreso le tecniche di Raffaello posso tornare a dipingere come un bambino". La cucina è la stessa cosa. Fondamentale sapere, ad esempio, che la clorofilla si fissa alla tal temperatura, stesso discorso per l’emoglobina. Devi conoscere, sapere se vuoi, ad esempio, cuocere un pesce mantenendo inalterate le proprietà nutrizionali». E la creatività? «Il mio può sembrare un discorso freddo, ma non lo è. Solo se sai quello che fai puoi ottenere il meglio e io lavoro per servire eccellenza». A chi la critica cosa risponde? «L’unico mezzo che ha l’uomo per evolversi è la tecnica: quando hai prodotti che rappresentano l’autentica eccellenza l’unica cosa che puoi fare è rovinarla, se non conosci le procedure e non sai quelle che sono le interazioni del fuoco e dell’acqua con il prodotto. Noi siamo da sempre una nazione di allenatori di calcio e da qualche anno anche di chef. Accetto la critica, ci mancherebbe, serve per migliorare, ma a volte mi dà anche fastidio quando non si basa su premesse serie». Il suo ultimo libro, come recita il titolo, è dedicato all’essenza dell’invisibile. A cosa si riferisce? «Quando si tratta un prodotto devi riuscire a coglierne la parte invisibile. Facciamo un esempio, molto semplice, legato al mondo contadino ovvero come si valuta la qualità di un salame? Passa attraverso l’analisi del sale, del pepe, del tipo di macinatura, della temperatura della carne mentre passa all’interno del tritacarne e dell’aglio. Senza dimenticare, come ovvio, che l’animale deve essere stato allevato nel migliore dei modi. Anche un gesto umile come mangiare una fetta di salame diventa nobile. Diceva Angelo Gaia: . Per tutti i prodotti devi avere la cultura necessaria per poterli giudicare, per capire se esiste o meno quella parte invisibile che lo porta a elevarsi fino a diventare eccellenza». [qode_simple_quote text_title_tag="h3" author_title_tag="h3" simple_quote_text="«La conoscenza dei processi chimici e fisici è indispensabile per valorizzare le materie prime senza correre il rischio di rovinarle»"]Quando ha capito che questa sarebbe stata la sua strada? «Da sempre cerco per prima cosa di arrivare a capire come funzionano le cose. Poi ho avuto la fortuna di crescere nel Parmense, nella campagna dove i contadini quando finivano di lavorare nei campi si fermavano da Cantarelli a mangiare due fette di culatello accompagnate da un buon bicchiere di vino». Chi era Cantarelli? «Peppino Cantarelli, insieme a Mario Soldati e a Gianni Brera, ha scritto la storia della ristorazione italiana. Era lui che dava da mangiare a Ligabue, che lo pagava portandogli i suoi nuovi quadri quando arrivava da Viadana. Da lui si sono fermati un anno, mentre giravano Novecento di Bernardo Bertolucci, Gerard Depardieu e Robert De Niro. Io vivevo lì, in un paesino di mille anime, dove ci si conosceva e ci si aiutava tutti, partecipando ognuno alla vita degli altri».