Enrico Bartolini: il lusso in cucina? Non è solo questione di prezzo
Non è facile fissare un appuntamento con lui. Ed è comprensibile: 11 ristoranti in giro per l’Italia e per il mondo; e un cumulo di 9 ètoiles Michelin sparse tra la Lombardia e il Veneto, il Piemonte e la sua amata Toscana. Tant’è. Enrico Bartolini arriva puntuale all’incontro fissato nel suo ristorante al Mudec, il Museo delle Culture di Milano, dove si è guadagnato le 3 stelle che in città mancavano dai tempi di Gualtiero Marchesi. E si presta ad una chiacchierata che dice già molto di questo 42enne, tutto pragmatismo e rigore, poco portato all’esibizione e alla cattedra, apparentemente timido e introverso, e invece, semplicemente meticoloso, anche ambizioso, comunque concentrato più sull’essenziale che sull’apparenza, più sulla vita com’è davvero che su quella che potrebbe o dovrebbe essere. I primi minuti di convenevoli sono sufficienti a rivelare la sua buona forma fisica, “guadagnata ogni mattina – è lui stesso a spiegarlo – massacrandomi con i piegamenti per non mettere su pancia”. E celebra le tante persone che hanno colmato la sua infanzia di sapori e golose abitudini, come zia Emilia che preparava la ribollita, zio Attilio che gestiva un ristorante quasi fiabesco e papà Osvaldo che produceva scarpe ma al figlio aveva raccomandato di cercarsi un lavoro in un settore diverso da quello delle calzature per avere un futuro. Convincente: Enrico l’aveva preso in parola, andando a trovare la sua strada in un ristorante di Parigi “dove si pagava il corrispettivo di 100mila lire per mangiare – ricorda ancora oggi – e mi sembrava di tradire il valore che i soldi avevano nella mia famiglia”. Cita con gratitudine l’esperienza formativa alle “Calandre” degli Alajmo. Mostra con orgoglio le opere d’arte che incorniciano il suo bel locale come la scultura decorata a graffito di Andrea Mastrovito e le splendide foto di Marco Forese e Liu Bolin. E si premura a ripetere che il lusso in cucina non è un affare di prezzo ma di piacere: quello che si ottiene tirando fuori da una materia prima il carattere e le sfumature che in pochi le attribuirebbero. Cerca una metafora che lo rappresenti al meglio e si affida alla scritta luminescente, appiccicata alla parete, all’ingresso del suo celebratissimo ristorante meneghino: “One day I’m gonna make the onions cry”. Un giorno farò piangere le cipolle”. “Divertente! L’ho fatta realizzare da un artigiano che lavora i neon. Il messaggio è chiaro: nulla è impossibile, ma bisogna volerlo. Ed è il mio benvenuto agli ospiti”. Voleva fare uscire il bambino che c’era e c’è in lei… “Continua ad esserci. Forse per reazione al fatto di essere cresciuto con genitori molto riservati. Oggi, quando mi sente al telefono, mia mamma si commuove e teme sempre di disturbare. La rassicuro. E capisco quanto siano importanti gli affetti. Ho 3 figli di 6, 8 e 14 anni e cerco di dedicare a loro il mio tempo libero. Pensi che il maggiore, Tommaso, si è convinto che io sia invincibile. Bene, cerco continuamente di dimostrargli che non lo sono”. In effetti c’è chi la considera un po’ troppo serio. “Mi fanno un complimento. La verità è che mi sento sempre inseguito dal senso di responsabilità. Mi creda: avere le 3 stelle al Mudec significa che devo ogni giorno onorarle e riverirle. E preferisco farlo con i piedi per terra e le orecchie basse. Comunque lo riconosco, non sono portato alla goliardia e all’irriverenza. In questo, sono poco toscano. I miei amici, nel Pistoiese, mi rimproverano perfino di avere perso anche un po’ l’accento”. In effetti non è un ospite frequente dei programmi Tv. Non sento l’esigenza di un certo presenzialismo mediatico. E poi lo ammetto: sotto i riflettori mi sento sempre un po’ in trasferta. E m’illumina la riflessione che un giorno mi ha regalato Giovanni Trapattoni: i giocatori quando fanno goal non dovrebbero andare davanti alla curva a scatenare il pubblico ma applaudire i compagni di squadra che li hanno messi in condizione di segnare”. Lei cita spesso la Francia come esempio virtuoso nella valorizzazione dell’alta cucina. “Dico solo una cosa: durante il primo lockdown, quello durissimo del 2020, Alain Ducasse si è seduto con il presidente Macron desideroso di ascoltare le esigenze di un autorevole collega che parlava a nome di tutti. Da noi queste cose non capitano. Per converso, permettiamo che passino messaggi sbagliati”. Tipo? “Che i giovani non abbiano voglia di fare sacrifici, come dimostrerebbe la carenza di personale nei ristoranti. Non è vero. Ho 400 dipendenti e la stragrande maggioranza di loro ha voglia di fare bene. Il problema è un altro e il governo dovrebbe occuparsene: è urgente che approvi un piano di decontribuzione per garantire alle nuove generazioni che arrivano nelle nostre cucine riscontri economici più adeguati”. Non mi dirà che vorrebbe vivere altrove? “Non ci penso proprio. In Italia c’è una biodiversità che nessun altro può vantare. Poi siamo bischeri e gestiamo male le cose. Ad esempio, non abbiamo la mentalità di altri Paesi in materia di qualità dei servizi e valorizzazione del patrimonio gastronomico. Ma per fortuna le cose stanno gradualmente cambiando. Lo vedo a Milano. Mi avevano sempre fatto credere che in una città simile bastasse farsi vedere. Sciocchezze! C’è una cultura del cibo pazzesca. Quando le stelle erano due, qui al Mudec capitavano serate così così e a pranzo c’era poca gente. Adesso, arrivano clienti da ogni parte del mondo e pretendono il massimo. Le 3 stelle? Sono incredibili. E sono convinto che in Italia altri miei colleghi abbiano i numeri per poterle ottenere”. Intanto lei è primo in Italia e quarto al mondo per numero di ètoiles Michelin. Grossa responsabilità. “La verità è che, all’estero, se non trovano l’Arrabbiata o l’Amatriciana, i clienti non ti considerano italiano. A Hong Kong, ad esempio, l’aspettativa verso i nostri due ristoranti di Central e Victoria Peak è puntata sui piatti che più ci identificano: paste, pizze, ossobuco. Stessa cosa a Dubai. Ci sono voluti 6 anni ma alla fine siamo riusciti a imporci con proposte differenziate in grado di raccontare il meglio della nostra cucina”. A proposito di esperienze globali, come gestisce la contaminazione con ricette e sapori lontani dai nostri? “Non alzerei muri. Io stesso, in Asia e Sudamerica, ho vissuto esperienze gastronomiche entusiasmanti. Mettiamola così: un cuoco dovrebbe sempre valorizzare i prodotti del proprio territorio. Ma senza rinunciare ad elementi che possono migliorare le ricette della nostra tradizione”. Traduzione? “Penso alle spezie. Quelle marocchine possono risultare più utili a caratterizzare i piatti rispetto alle nostre? Ben vengano. Piuttosto, è importante non fare forzature. Ad esempio, al Glam che è il nostro ristorante di Venezia, in queste settimane non abbiamo mai proposto il tartufo preferendo valorizzare le ottime materie prime della laguna. Per converso, il tartufo primeggia nel locale che abbiamo in Monferrato”. Certo che il successo del suo risotto alle rape rosse e gorgonzola è una case history… “E pensare che l’avevo creato anni fa quando lavoravo alle “Robinie”, in Oltrepò Pavese. Io non sono più quello di allora. Eppure, quel risotto è sempre lì, come un elemento identitario e una simpatica persecuzione. Oggi, ai nostri ospiti proponiamo menù degustazione come il Best Of e l’Experience che sono davvero dei viaggi emozionali nella nostra cucina, quella classica e quella più creativa. Ma quel piatto, non riesco proprio a toglierlo dalla carta”. Vista la location di prestigio, si potrebbe dire che quel piatto è diventato un pezzo da collezione. “Mamma mia, il Mudec è davvero magia pura: arte, cultura, pensieri colti. Ai miei ragazzi dico sempre: non portatemi più via da questo posto”. Anche per continuare a far piangere le cipolle. “Proprio così. Ognuno dei miei ristoranti deve valere il viaggio. Ma il 2022 sarà un anno speciale per un altro motivo: per la prima volta, al Mudec chiuderemo due giorni la settimana, la domenica e il lunedì. Oggi questo stacco possiamo permettercelo. E, con me, se lo meritano i cuochi e i ragazzi che ci lavorano. Più tempo libero. Più vita”.