Alice Delcourt e la sua Erba Brusca, l'orto a chilometro zero alla periferia di Milano

di PAOLO GALLIANI
7 ottobre 2022

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L’arcano si rivela in fondo all’Alzaia del Naviglio Pavese dove Milano accetta di immergersi tra le rogge, le cascine, la marcite, insomma, la campagna. E a guidare la narrazione è lei, Alice Delcourt, cuoca anglo-francese cresciuta negli States che ha scoperto l’Italia grazie alla partnership tra il suo college e l’università di Firenze e che in questo angolo defilato della metropoli lombarda ha inventato un locale pieno di clorofilla dandogli il nome - Erba Brusca - di una piantina spontanea e commestibile abbastanza plebea ma che lei non disdegna di utilizzare, “perché - spiega - aggiunge una deliziosa nota acidula ai piatti”. Interessante.  Come un romanzo. E in fondo lo è il racconto sui buoni ortaggi raccolti da Alice nel grande orto che ha voluto affittare con Danilo Ingannamorte, compagno di vita, sommelier dalla verve filosofica e vero contadino di questa mini-tenuta agricola che chiunque definirebbe solo come “estrema periferia”. Un’utopia realizzata, questo sì. Perché è un privilegio preparare pietanze utilizzando, all’80-90%, verdure e legumi di stagione coltivati in casa propria e che spesso arrivano in cucina senza nemmeno passare per il frigorifero: cetrioli, melanzane e zucchine, insalata lollo, coriandolo, acetosella, aneto, aglio selvatico. E ancora: le rape rosse proposte agli ospiti dell’Erba Brusca sotto forma di crema a cui aggiungere un mix di 8 spezie ed erbe aromatiche per farne uno sfizioso antipasto; i pomodori brasati per 20 ore con cannella, peperoncino e ricotta fumée portati a nozze con gli spaghetti per un “primo” da ricordare; e i peperoni arrostiti e trasformati in mousse, a cui aggiungere verdure fermentate, pesche affumicate, menta e pastrami di coppa. Mood troppo vegetariano? Non propriamente. Semmai, etico, questo sì.  A chiarirlo è la stessa Alice, quando spiega le ragioni del rifiuto, suo e di Danilo, di prevedere nel menù piatti a base di manzo: “È impressionante lo spreco di risorse per allevare bovini”. Che poi, le alternative non mancano: meglio i maiali che vivono allo stato brado o i capi di bestiame che provengono dall’attività venatoria programmata e autorizzata da Asl e parchi. Analogo discorso per il pesce. E qui, la scelta preferenziale di Alice è per quello di acqua dolce e per le forniture da una cooperativa molisana che pratica la pesca sostenibile. Illuminante. Come lo è il gusto personalissimo della cuoca che - ammette - ama tantissimo preparare i risotti ma ha una sfacciata predilezione per le paste, “specie quelle secche, perché la masticazione è fondamentale nell’assunzione di cibo”. La sua fissa? La consistenza. Perché l’uniformità è noiosa. Insiste: “Mi preparo a proporre il risotto alla zucca che è un ortaggio dolce? Contrasterò il suo gusto sweet con l’acidità della saba e il piccante della paprika”. Tesse l’elogio del limone che è un mantra della sua cucina. E anche se ogni settimana cambia il menù degustazione di 6 portate, ammette che alcuni piatti presenziano da quando il locale è aperto, ovvero dal 2011. Uno su tutti: spaghetti, vongole, tartufo estivo e una spruzzata di erba brusca. Anche se è un’icona della maison tallonata da un altro ever green, il “risotto Carnaroli con limone sotto sale e paprika”. Tant’è. Vederla all’opera aiuta a capire il bello di questo ristorante che ha preso il posto della gloriosa Osteria del Tubetto, cucina onesta e diretta, dove Narciso non è un invitato gradito.  Alle pareti della sala, il meglio dell’enologia italiana poco conosciuta ma di qualità; e il nuovo logo dell’Erba Brusca “In dirt we trust”, curioso slogan che gioca - forse volutamente - sul doppio significato del termine inglese “dirt”, ovvero “terra” e “sporco”, e alla fine suona come messaggio subliminale: meglio imbrattarsi le mani nei campi che trasformare la cucina in un palcoscenico autoreferenziale. Visto dall’Erba Brusca, cambia anche il punto di vista sulla periferia. Il lungo-Naviglio che adesso è tutto un cantiere presto ospiterà un tratto della pista ciclabile ‘Vento’ tra Venezia a Torino. E se non è una parabola, poco ci manca. Questione di prospettiva. A ben guardare, la Milano è anche la Milano che inizia.