Fenomeno Saslà, l’uva da tavola dei Colli Bolognesi che accompagna lo gnocco fritto

In Francia è chiamato Chasselas ed è un vitigno da vino, in Emilia si mangia e dopo aver rischiato la scomparsa, oggi è al centro di un percorso di riscoperta e valorizzazione con tanto di Presidio Slow Food

di LORENZO FRASSOLDATI
20 settembre 2024
Il convengo dedicato all'uva Saslà

Il convengo dedicato all'uva Saslà

Uva da tavola, grande prodotto di Puglia e Sicilia, campione del nostro export di frutta. Ma pochi sanno che sui Colli bolognesi (territorio tra Bazzano, Monteveglio, Castello di Serravalle, Savigno, Zola e Casalecchio) c’è una tradizione storica di coltivare e produrre una varietà di uva da tavola Saslà, che nient’altro è che il vitigno francese Chasselas, che in Francia, Svizzera e Germania è un’uva da vino.

Questo particolare vitigno francese (si pronuncia: sciasslà. “Saslà” è l’adattamento al dialetto emiliano), molto diffuso tra i filari dei vigneti di uve da vino, coltivati sui Colli Bolognesi, produce un’uva da tavola che sta conquistando sempre di più le tavole degli emiliani. Chicco piccolo, a bacca bianca dorata dal sapore dolce e intenso, secondo la tradizione l’Uva Saslà va gustata in compagnia dello gnocco fritto, altro prodotto tipico della gastronomia dei Colli Bolognesi.

È in corso un progetto di rilancio della produzione dell’Uva Saslà, ora inserita nell’Arca del Gusto di Slow Food quale presidio di biodiversità alimentare e agricoltura familiare. Non c’è podere coltivato a vigneto nelle valli del Samoggia, del Lavino e del Reno che non abbia uno o più filari di Uva Saslà. Un’uva che, dopo la vendemmia, si vendeva in Italia ma anche all’estero (in Germania ed Austria). Per confezionare il prodotto nei tipici plateau di legno di pioppo, si impiegavano diverse donne che sforbiciavano gli acini marci oppure immaturi usando delle forbici chiamate giurein. Agli inizi del ’900 sulle colline bolognesi si produceva tantissima Uva Saslà e veniva esportata in mezza Europa. Alla fine del secolo scorso il vitigno era quasi scomparso, ma ora si sta riscoprendo.

“Sono tanti i ristoranti che hanno accettato di proporre un menù a base di Uva Saslà. E ad 8 anni di distanza sono sempre più i soggetti coinvolti nella Festa di questo particolare vitigno francese (lo “Chasselas”) che sul nostro territorio produce una pregiata uva da tavola”, così Luigi Vezzalini, presidente di Terre di Jacopino, l’associazione di Castello di Serravalle che in questi giorni di settembre ha organizzato con il Comune la Festa dell’Uva Saslà 2024 nei municipi di Valsamoggia. Promossa da Confesercenti Bologna con il contributo della Camera di Commercio di Bologna la festa dell’Uva Saslà per tutto il mese di settembre si tiene tra Bazzano, Monteveglio, Castello di Serravalle e Savigno. Momento clou è stato il convegno di Savigno del 12 settembre sul tema ‘La Ristorazione e i Prodotti locali insieme per promuovere il Territorio’.

Annamaria Manfredini, produttrice, con una cassetta dell'uva tipica dei Colli Bolognesi
Annamaria Manfredini, produttrice, con una cassetta dell'uva tipica dei Colli Bolognesi

“Il Comune – ha affermato Federica Govoni, vicesindaca di Valsamoggia – sostiene la riscoperta di una coltivazione che risale a più di 100 anni fa. Nei tempi d’oro, nella prima metà del ’900, dai nostri Municipi l’Uva Saslà veniva esportata con i treni in tutto il mondo. Oggi salutiamo con gioia il felice sodalizio instaurato tra enti locali, associazioni di categoria, produttori e trasformatori creato per la promozione dell’Uva Saslà”. A un testimone storico come Luca Generali di Montebudello è toccato raccontare le sue ricerca sull’Uva Saslà. “All’inizio degli anni 2000 – ha rivelato – ho scoperto un fervido mondo di produttori che prima del 1938 spedivano a Bologna l’Uva Saslà con i carri trainati da cavallo e, non appena arrivata a Bazzano la caricavano interi convogli di treni”. Giorgio Erioli , altro testimone storico, ha elencato una lunga teoria di vitigni di nicchia e di uve da tavola coltivati sul nostro territorio dei Colli Bolognesi. Oltre all’Uva Saslà, si poteva trovare l’Angela, il Negretto il Maiolo e tante altre uve poi andate in disuso.

“Con le 2400 piante di Uva Saslà – ha ricordato Annamaria Manfredini, produttrice – innestate 33 anni fa su una vigna vecchia di oltre 80 anni, oggi il mio podere è il maggiore produttore di Uva Saslà. Si vende nelle classiche cassette e quella che rimane va alla trasformazione. Siamo riusciti ad ottenere un ottimo aceto balsamico”. “L’Uva Saslà ora è inserita nell’Arca del Gusto di Slow Food, quale presidio di biodiversità alimentare – ha aggiunto Raffaella Melotti, presidente della Condotta Slow Food Valli Reno Lavino Samoggia – tanti i laboratori tenuti anche di recente con bambini e adulti per educarli ad apprezzare queste eccellenze del nostro territorio”