Pentedattilo tra storia e mistero. Dalla maledizione delle 5 dita al pittore tedesco
Calabria, dagli anni Duemila il paesino si è rianimato grazie al turismo. Se non di notte, perlomeno di giorno. Il suo fascino affonda le radici in un fatto accaduto la notte di Pasqua del 1686
Roma, 15 ottobre 2024 – C’è chi dice che le cinque dita della mano di pietra, su a Pentedattilo, un bel giorno si chiuderanno definitivamente, stringendosi in pugno e stritolando uomini, case, strade.
La motivazione ufficiale per cui il borgo, oggi ufficialmente frazione abbandonata del comune di Melito Porto Salvo, Reggio Calabria, a un certo punto dagli anni Settanta in poi sia stato abbandonato, in realtà è ben più pratica.
Non c’è spazio. Vicoletti troppo stretti, nessuna possibilità di far passare le macchine e nessuna possibilità neppure di fare spazio, visto che il suo grappolo di case e chiese è stato costruito sul costone della roccia. Nonostante ciò dagli anni Duemila questo borgo è stato rianimato, se non di notte, perlomeno di giorno. Sono nati botteghe, percorsi guidati e punti di ristoro. Una tappa obbligata per gli amanti dei luoghi abbandonati, che con un paio d’ore di sole e scarpe comode può proiettare per un momento i visitatori a fine Ottocento, quando Pentedattilo era ancora viva.
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L’antica maledizione
Da oltre cinquant’anni gli abitanti di Pentedattilo sono lentamente scesi a valle. Colpa del rischio di frane e dell’impossibilità di portare le auto certo, ma nessuno dimentica l’antica maledizione. Il fatto è storico, benché romanzato. Siamo al 16 aprile 1686, giorno di Pasqua. I marchesi Alberti di Pentedattilo e i baroni Abenavoli di Montebello Jonico decidono di mettere fine a una faida centenaria unendo le loro due famiglie con un matrimonio. Antonietta Alberti avrebbe sposato Bernardino Abenavoli, perlomeno se il diavolo non ci avesse messo la cosa. Galeotto fu un altro matrimonio, quello del fratello di Antonietta, Lorenzo, con la figlia del viceré di Napoli. Ma il viceré Don Pedro Cortez aveva anche un figlio maschio, don Petrillo, e lo portò con sé fino a Pentedattilo. Don Petrillo vide Antonietta e se ne innamorò perdutamente. I due si fidanzarono, mandando a monte la promessa con Bernardino Abenavoli. Il quale, vien da sé, non la prese benissimo. Così complice la notte e una talpa dall’interno, la notte di Pasqua del 1686 entrò nel castello degli Alberti, uccise tutti e rase al suolo il maniero.
Le maledizioni ulteriori
Oggi i ruderi del Castello degli Alberti sono ancora ben visibili a Pentedattilo. Si ergono in cima alla montagna delle cinque dita, quelle che danno il nome al posto e che secondo l’antica leggenda a un certo punto si chiuderanno sulle case. Nel frattempo il paese – come molti della provincia italiana –, anche senza bisogno di maledizioni si è lentamente spopolato. Gli ultimi residenti ufficiali sono andati via negli anni Ottanta, se si esclude qualche ritorno. Come quello di un pittore tedesco che a un certo punto prese possesso di una casa e vi si stabilì per un periodo, prima di sparire anche lui.
Dove si incontrano i due mari
Eppure una visita a Pentedattilo è quasi una tappa obbligata per chi si trovi a visitare la punta estrema dello stivale. Siamo più a sud di Reggio Calabria. L’Italia finisce con una strada – la statale 106, che a un certo punto dallo stretto vira dolcemente a sinistra e fa per risalire. Le spiagge sono divise dall’entroterra da una ferrovia di trenini minuscoli che si stagliano al tramonto e nel mare una sottile striscia bianca indica il punto in cui l’acqua del mare Jonio si mescola con quella del mar Tirreno.
L’area grecanica
La zona è quella che ancora, pervicacemente, tremila e passa anni dopo, rimane Magna Grecia. Bova, Bovalino, la stessa Pentedattilo. Il dialetto che parlano è un greco attenuato dai millenni, mescolato con il dialetto locale, ma pur sempre greco. Così Pentedattilo altro non vuol dire che, letteralmente pènta-dàktylos, ovvero cinque dita. E a sentire parlare le persone del luogo sembra di attraversare lo Jonio e ritrovarsi dall’altro lato.
Pentedattilo oggi
La visita non impegna che un paio d’ore. C’è da arrampicarsi. Pernottare si può a Melito di Porto Salvo, poi con l’auto si guadagna l’entroterra, seguendo le indicazioni per la frazione abbandonata. Uno spiazzo con un chiosco stabilisce il confine oltre il quale i motori non sono permessi, dalla natura del posto più che dalle regole. Oltrepassato il ponte d’accesso al vecchio paese, le botteghe di artigianato oggi sono fiorenti lungo quello che un tempo era il corso principale. Si può sbirciare nei cortili delle case abbandonate, in qualche imposta rimasta socchiusa, immaginare la vita di chi in quei luoghi tornava a sera e ripartiva la mattino alla volta dei campi. Anche la cattedrale è chiusa ma non è sconsacrata. Ogni tanto il parroco del paese sale su a dirci messa. Solo non ci si sposa più da secoli, più o meno da Pasqua del 1686. Tutte storie che le guide del posto conoscono a menadito, dosando ai turisti cenni storici e un po’ di sano mistero popolare. Davanti alla chiesa un belvedere permette di coprire con colpo d’occhio la parte bassa del paese il mare sullo sfondo. Alle spalle le cinque dita di argilla che incombono. Romantiche e un po' sinistre, prima che al tramonto la loro ombra non diventi più minacciosa. Ma sono lì da millenni, spettacolo della natura a cui l’uomo non ha resistito a dare corpo e significato.