KHANKI (Kurdistan iracheno), 11 maggio 2016 - Li chiama ‘gli uomini neri’. L’hanno violentata, costretta a costruire ordigni esplosivi, e quando dopo un anno e otto mesi di schiavitù è riuscita a fuggire assieme a due compagne di sventura, è tragicamente finita su una mina artigianale: le sue amiche sono morte dilaniate, lei è rimasta ferita, sfigurata e ora rischia di perder un occhio. Ma dopo tanto orrore, quei diavoli neri non li vuole dimenticare: «Voglio che tutti sappiano». Fa un sospiro, e comincia. «Mi chiamo Lamia Haji Bahar ed ero una schiava dell’Isis. Non solo servivo ai bisogni dei miei padroni. Da me volevano di più. E così uno di loro mi ha obbligata per mesi a costruire bombe, trappole esplosive e anche giubbotti per kamikaze. Mi hanno picchiato quando ho detto che non volevo. E alla fine ho ceduto. Mi hanno insegnato. Non è difficile. Ne costruivo anche 50 al giorno, di bombe. Ma non riuscivo a smettere di piangere perché sarebbero serviti ad ammazzare innocenti come me». Fa gelare il sangue la storia di Lamia, oggi al sicuro nelle mani dell’Unhcr al campo profughi di Khanki, nel Kurdistan iracheno.
IO dice - sono yazida. Il mio villaggio è stato conquistato nell’agosto del 2014. Siamo contadini, non avevamo difese. Gli uomini ci avevano nascoste in un magazzino, in delle buche, dove potevano. Ma ci hanno trovate. Io avevo sedici anni, allora. Gli uomini neri mi hanno presa e portata via. Prima a Mosul, e poi in Siria per un mese. Poi mi hanno riportata in Iraq. Sono stata per oltre due mesi con persone diverse. Poi mi hanno ceduta a un altro comandante, ero il premio per non so cosa. Lui mi ha portata ad Hawiya. È stato lui che mi ha costretto a costruire bombe. Stavo tutto il giorno in una stanza con esplosivi, pezzi di metallo, detonatori e lavoravo senza soste. E se non lo facevo come volevano, mi picchiavano ancora». «Dopo sei mesi - dice - ho visto la possibilità e sono scappata. Ma mi hanno ripreso. In tutto ad Hawiya sono stata un anno e due mesi. Poi, il 19 aprile sono scappata di nuovo, assieme a due compagne di prigionia. Ci avevano lasciate sole e ci siamo dette: andiamo. Erano le sette di sera. Abbiamo corso tutta la notte, stando lontano dalle strade. Alle 4 del mattino ci siano avvicinate a una strada e siamo saltate in aria. Le mie compagne sono morte quasi subito. Io sono stata ferita dalle schegge e dalla fiammata. Il mio volto era devastato, non ci vedevo più». A salvarla è venuta la gente del villaggio, un villaggio curdo, che ha chiamato i peshmerga. Adesso Lamia è fuori pericolo ma rischia seriamente di perdere un occhio. Per questo oggi la porteranno in un ospedale tedesco per cercare di fare un miracolo. «Spero - chiosa - ma più che al mio occhio penso alle ragazze che sono ancora là. Per loro l’orrore non è ancora finito. Io lo so cosa passano, lo sogno ogni notte. E non credo che smetterò mai».
dall'inviato ALESSANDRO FARRUGGIA