Ponchia
"Yes, she can". Era già lì bello pronto, non un riciclo ma il rilancio di uno slogan che ha funzionato. Kamala Harris può farcela. E se lo dice Barak Obama può crederci. Non irraggiungibile come "I like Ike" usato per lanciare la campagna presidenziale di Dwight Eisenhower. E nemmeno come lo struggente "I have a dream" di Martin Luther King. Però funziona. Ed è già sulla bocca di tutti con una potenza trasversale che il motto supernazionalista e protezionista di Donald Trump "Make America great again" forse non può eguagliare. "Uno slogan è efficace se rappresenta la sintesi della proposta politica ma soprattutto se lascia un segno sulla personalità del candidato – spiega Massimiliano Panarari, professore di Sociologia della comunicazione all’Università di Modena e Reggio Emilia –. Deve imprimersi nella memoria corta dell’elettore. E in un’epoca complicata come la nostra aprire una strada, dare una percezione del futuro". Qui è il pronome a fare la differenza: "Il we che diventa she apre la finestra su nuove prospettive – continua Panarari –. Evoca l’ipotesi del primo presidente donna in chiave molto polarizzata rispetto a un maschio sovranista che fa leva sulla paura, ma non si limita alla differenza di genere. Rileva anche il vantaggio anagrafico, che dopo il ritiro di Biden si è spostato a favore dei democratici. Non si tratta di un riciclo, appunto, ma del recupero di uno dei claim più potenti della storia americana: tempi nuovi, l’empowerment alla portata di tutti".
In America vanno fortissimo con il marketing. Anche con quello politico, che ha appena sfornato un’immagine restaurata di Joe Biden alla convention di Chicago, il riscatto di un uomo che brilla nella sua fragilità. Ma quanto conta davvero nella corsa alla Casa Bianca la scelta delle parole giuste? Quanto incidono sul corso della storia e quali sono quelle che restano nella memoria? La costruzione di una frase ad effetto non è un compito facile e chi è chiamato a trovarla si muove in una zona grigia fra attivismo politico e strategia di mercato dove è facile inciampare. Un uomo, e tanto più l’uomo più potente del mondo, non è una scarpa da ginnastica ma nemmeno un drink o una crema da spalmare.
"Make Love Not War" poteva convincere gli hippy di tutto il mondo durante la guerra in Vietnam, tuttavia è troppo generico per portare la gente a votare. Thomas Woodrow Wilson, nella campagna per la rielezione presidenziale del 1916, usò lo slogan "He proved the pen mightier than the sword" (ha dimostrato che la penna è più potente della spada). Nella sabbie mobili della Grande Depressione, durante la campagna del 1932 lo sfidante democratico Franklin D. Roosevelt promise all’elettorato la sua versione di speranza e di cambiamento con "Happy Days Are Here Again" (I giorni felici sono di nuovo qui). "Change We Can Believe In" (il cambiamento in cui possiamo credere) è stato il motto di Barack Obama nel 2008.
Ma la storia è molto più vecchia. È dagli anni ’30, fa notare il sociologo, che le campagne elettorali americane sono diventate una faccenda scientifica, modellando il marketing politico su quello commerciale. "Però dietro c’è tutta la straordinaria competenza accumulata a partire dalla fine dell’800 con il contributo di discipline diverse, dalla psicologia sociale alle scienze comportamentali. Con il rischio sempre in agguato del bignami della persuasione". Tutto questo oggi è potenziato dall’utilizzo dei big data, dalla profilazione garantita dagli algortimi. "Nelle retrovie dei democratici si agitano gli show runner – dice Panarari –, gli sceneggiatori delle grandi serie televisive che in un attimo diventano ghost writer. Se Yes we can ricorda I like Ike è perché c’è la sintesi ma anche la capacità di produrre suoni che vengono ricordati, essenziali nell’economia dell’attenzione. È tutto molto controllato: praticamente un format".