Giovedì 21 Novembre 2024
VIVIANA PONCHIA
Esteri

Da Kennedy a Reagan fino a Capitol Hill, la storia della violenza in Usa contro le istituzioni

L’attivista H.Rap Brown sosteneva che “la violenza è parte della cultura americana tanto quanto la torta di ciliegie”

Roma, 14 luglio 2024 - H. Rap Brown l’attivista di Black Power degli anni ’60, sosteneva che “la violenza è parte della cultura americana, è americana tanto quanto la torta di ciliegie”. Dal rapporto brutale con i nativi a quello disinvolto con le armi, dal razzismo al surreale blitz in Campidoglio il 6 gennaio 2021, dal ginocchio del poliziotto piantato sul collo di George Floyd agli attentati contro i presidenti. Paladini della democrazia, vittime di una catastrofe anche simbolica come il crollo delle Torri Gemelle, gli Stati uniti hanno sempre attraversato la storia proclamando che l’alba è vicina, ma in bilico sulle tenebre. Negli ultimi scampoli della guerra di secessione, cinque giorni dopo la resa delle truppe confederate del generale Robert E.Lee agli unionisti, Abraham Lincoln fu il primo presidente di una lunga serie a essere assassinato.

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Era il 14 aprile 1865, venerdì santo, e la vittima assisteva allo spettacolo Our American Cousin al Ford’S Theatre di Washington. Attentato pianificato e condotto dall’attore John Wilkes Booth, tassello di una cospirazione più ampia per tentare di indebolire l’Unione. Lincoln morì il giorno dopo, il resto della congiura fallì. James Abram Garfield, 20º presidente degli Stati Uniti, ricoprì uno dei mandati più brevi della storia americana: fu gravemente ferito il 2 luglio 1881 da un colpo di pistola sparato da un disoccupato e morì due mesi dopo. Il 6 settembre 1901 l’omologo William McKinley stava stringendo calorosamente la mano al pubblico dell’esposizione panamericana di Buffalo quando un giovane anarchico di origini polacche, Leon Czolgosz, sparò a bruciapelo due colpi di rivoltella che ne provocarono la morte il 14 settembre. E fanno tre. Franklin Delano Roosvelt sfuggì al destino per puro caso il 15 febbraio 1933 a Miami. Giuseppe Zangara, 33enne nato in un piccolo paese della Calabria dal quale era emigrato dieci anni prima, cercò di ammazzarlo adducendo l’urgenza di colpire il capo della nazione più potente del mondo, simbolo del sistema capitalistico, per vendicare tutti i poveri del pianeta e fondare una nuova società di uomini liberi e uguali. Non ci riuscì.

Così come mancarono il colpo i fanatici nazionalisti portoricani che nel 1950 provarono ad assassinare Harry Truman. Ma l’evento più cinematografico, il grande trauma collettivo, fu l’assassinio di John Kennedy il 22 novembre 1963 a Dallas, in Texas. Sessantuno anni dopo resta il delitto più indagato del secolo, ancora impigliato nelle teorie complottiste che fanno a pugni con la versione ufficiale secondo la quale a uccidere il 35esimo presidente degli Usa fu solo lee Harvey Oswald. Passano cinque anni appena, l’America è in piena campagna presidenziale: il 5 giugno 1968 un altro attentato coinvolge il fratello di Jfk, Robert Francis Kennedy, ucciso dopo un comizio nella ballroom dell’Ambassador Hotel di Los Angeles. L’allora senatore passò per la cucina che gli era stata indicata come scorciatoia per la sala stampa e venne colpito tre volte da Sirhan Sirhan, un 24enne palestinese che sparò con un revolver calibro 22. Il 30 marzo 1981, quando mancavano poco più di due mesi all’inizio del suo mandato presidenziale, Ronald Reagan stava lasciando l’Hilton Hotel di Washington.

Aveva parlato davanti a migliaia di membri del sindacato Afl-Cio e uno squilibrato, John Hinckley Jr, aprì il fuoco perforandogli il polmone sinistro. Rischiò di morire sotto i ferri, ma fu dimesso dieci giorni dopo mentre il suo attentatore è da poco uscito dal manicomio criminale. Gerald Ford si spense con dolcezza a 93 anni dopo essere sopravvissuto ai kamikaze giapponesi nel Pacifico, a un tifone che distrusse la sua portaerei, a tre ictus cerebrali, allo scandalo Watergate che devastò il partito repubblicano negli anni ’70 e non a uno ma a due attentati. Il più celebre rovinò al presidente la mattina del 5 settembre 1975 e fece entrare nella storia Lynette Alice Fromme, già membro della "famiglia” Manson. Nota con lo pseudonimo Squeaky, la donna si presentò al Campidoglio di Sacramento ricoperta da una tunica rossa e con una pistola legata a una gamba. Disse di voler parlare al presidente del disboscamento planetario e quando gli puntò contro le semiautomatica l’arma si inceppò. Al processo fu descritta come “piena d’odio, capace di ogni violenza”. Reagì scagliando una mela contro il pubblico ministero e fu poi condannata all’ergastolo.