Roma, 18 febbraio 2018 - Kevin Warwick, classe 1954, è un professore universitario e ricercatore inglese di cibernetica e robotica applicata all’essere umano. Oggi è vicerettore dell’Università di Coventry, ma è diventato famoso vent’anni fa, nel 1998 con il ‘Progetto Cyborg’. Warwick fu il primo uomo-robot, ovvero il primo uomo a impiantarsi un chip nel braccio. Un esperimento che ha rivoluzionato la storia delle interazioni uomo-macchina. "Prima di allora, quel tipo di impianto era stato provato solo su animali, in particolare sui gatti, e sul loro sistema nervoso. E veniva tolto dopo tre giorni".
Per quanto tempo ha avuto quel chip nel braccio?
"Tre mesi. Solo il fatto di averlo tenuto così a lungo ha avuto un enorme impatto sulle ricerche mediche, perché ha dimostrato che non c’erano controindicazioni, che il corpo umano poteva ‘sopportare’ e interagire per lunghi periodi. Il che ha aiutato a superare le perplessità etiche sull’utilizzo in campo medico".
Tre mesi come primo uomo robot: per fare cosa?
"In realtà, molto di più del ‘controllare un braccio-robot’, come è stato a lungo semplificato. Certo, quella era la parte più facile da capire e da spiegare, e anche con più applicazioni pratiche".
Quali sono state?
"Oggi lo stesso tipo di chip aiuta molte persone paralizzate a recuperare almeno in parte i movimenti. In molti casi di paralisi, il cervello funziona ma i moto-segnali, se appaiono, non arrivano dove dovrebbero arrivare, causa le lesioni nel sistema nervoso o nel midollo, o altri problemi. Il primo giorno del nostro esperimento dimostrammo che si possono prendere segnali nervosi e ri-trasmetterli come se lo facesse il sistema nervoso".
E negli altri 89 giorni, cosa avete testato?
"Nuove forme di comunicazione nervi-cervello, input extrasensoriali, controllo di parti robotizzate, e anche ‘giochini’ come cambiare il colore dei gioielli".
Con quell’esperimento è arrivata la fama, la copertina di ‘Wired’… .
"Arrivarono anche moltissime critiche, attacchi che non mi sarei mai aspettato, accuse di aver fatto tutto ciò solo per la notorietà".
Poi però lei ha fatto una cosa ancora più rivoluzionaria: mettere in comunicazione due sistemi nervosi, il suo e quello di sua moglie, tramite due chip.
"È l’esperimento che mi ha dato più soddisfazione in assoluto, in tanti anni di ricerche. Ho un background nel campo della comunicazione e vedo che, come esseri umani, il modo in cui mandiamo segnali da cervello a cervello è molto povero, rispetto a come comunica la tecnologia. Quello che facemmo, con mia moglie, fu mandare segnali dal sistema nervoso dell’uno a quello dall’altra. Abbiamo dimostrato che l’uomo può espandere le proprie capacità sensoriali. Noi esseri umani saremo in grado di comunicare solo attraverso il pensiero".
Una prospettiva affascinante e paurosa allo stesso tempo.
"Cambierà completamente l’essere umano. La domanda è proprio: quanto saremo ancora umani? Non lo so, non siamo ancora in grado di comunicare così".
Quanto siamo lontani dal ‘comunicare solo attraverso la mente’? Lei ha salito il primo gradino.
"Siamo ancora su quel primo gradino, anche se penso che in tutto ne serviranno tre o quattro. Facemmo il primo passo, e anche quello fu cruciale. Credo che il prossimo esperimento sarà cruciale: cercare di connettere due cervelli".
Però sono passati 15 anni, e nessuno è andato avanti in questo filone di ricerca. Come se lo spiega?
"Ne sono sorpreso anch’io. Perché la scienza funziona così, un esperimento dopo l’altro. Certo, noi prendemmo dei rischi, che ora però non esistono più".
La scienza però incontra anche tanti ostacoli.
"Ricordo la prima volta che sono venuto a Napoli. Il taxi ha passato tre semafori rossi consecutivi. Per me era impensabile. ‘Qui fermarsi al rosso è opzionale’, mi spiegò il tassista. Mi è piaciuto molto come concetto, perché nelle ricerche che porto avanti, ci sono molti semafori rossi: non puoi far questo, non puoi far quello. E se ti fermi sempre a questi semafori rossi, non vai dove vuoi andare, la ricerca non procede".
Forse lo stop arriva dagli aspetti etici del ‘connettere due cervelli’?
"Per far esperimenti di questo genere devi avere approvazioni dal comitato etico, ma è proprio da un punto di vista etico che la ricerca deve andare avanti: scoprire se una cosa si può fare, se fa bene o se fa male".
Lei studia le connessioni fra mente e chip, eppure da sempre sottolinea i pericoli dell’intelligenza artificiale.
"Dico ‘attenzione a quel che creiamo’ fin dal 1997, col il libro ‘La marcia della macchine’. Oggi lo dicono anche Elon Musk e Stephen Hawking. È un bene che ci sia questa consapevolezza".
Ha paura di lasciare troppo spazio alle macchine?
"In un certo senso sì. Possono essere intelligenti in modi molto specifici e settoriali, ma non hanno l’intelligenza generale che ha il cervello umano. Non capiscono le battute, le sfumature, le emozioni".
Che cosa le piacerebbe sperimentare?
"Non ho abbandonato l’idea di connettere due cervelli, anche se mia moglie vorrebbe tanto che smettessi di pensarci. Ma ne ho avuto abbastanza delle critiche di 15 anni fa".