"Definire Donald Trump ’fascista’ non credo sposterà un solo voto. E lo stesso potrei direi per l’aggettivo ’comunista’ assegnato a Kamala Harris dal suo competitor pronto a tutto". Mario Del Pero (foto), 54 anni, professore di Storia internazionale sulla cattedra parigina di Sciences Po, considera il dibattito innescatosi negli Stati Uniti, dopo le dichiarazioni di Kamala Harris e del generale John Kelly, come "la prova che la polarizzazione in corso tra i leader e all’interno del Paese segnerà ancora più profondamente l’anima degli Stati Uniti".
Cosa sta succedendo, professore? La democrazia americana è in pieno avvitamento?
"Alla contrapposizione naturale tra i candidati si sta sostituendo una delegittimazione reciproca storicamente estranea alla cultura del Paese. Solo un secolo fa nelle elezioni del 1912 avvenne qualcosa di parzialmente paragonabile, almeno per la virulenza dei toni, con il democratico Woodrow Wilson che sfilò la Casa Bianca al repubblicano William Taft nonostante la candidatura di Theodore Roosevelt per il Partito Progressista e di Eugene Debs per quello socialista".
Ma stavolta i candidati sono due e incattiviti. Con elettori parallelamente antagonisti.
"Un’evidenza che traspare da tutti gli indicatori, e da uno in particolare: il voto a ’pacchetto chiuso’ che i due fronti replicano ormai ad ogni elezione. In Europa abbiamo una visione semplificata degli americani al voto. Ci scaldiamo per il duello della Casa Bianca o per le elezioni di Mid Term. Ma l’americano che alle urne ci va, e pure convinto, è chiamato a esprimersi tante volte anche a livello statale o di contea. La tendenza ormai tracciata dagli indicatori è il cosiddetto “Straight ticket“. Significa che l’elettore vota a occhi chiusi quello che gli suggerisce la sua parte politica, senza distinguo, neppure a livello locale".
È una dinamica inarrestabile?
"Se qualcuno 25 anni fa ci avesse raccontato che Dick Cheney, il falco repubblicano per eccellenza, segretario della Difesa con Bush padre e poi vicepresidente con Bush figlio, sponsor di Desert Storm e di Guantanamo, stavolta voterà per Kamala Harris, l’avremmo preso per pazzo. Invece così Cheney ha dichiarato. Ed è la controprova che la retorica del Make America Great Again ha stregato le masse elettorali ma non le vecchie élites del Gop. A destra, solo i repubblicani ultraconservatori e custodi dei valori costituzionali vedono il pericolo impersonato da Trump".
Autoritario o golpista?
"Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma il 5 novembre sarà la prima volta nella storia degli Stati Uniti in cui uno dei possibili vincitori sarà l’uomo che nel 2021 promosse il disegno eversivo per impedire una pacifica transizione. L’assalto a Capitol Hill".
Kamala Harris si propone come alternativa in tutto, anche all’implosione democratica del Paese. Funzionerà?
"La sua agenda presenta elementi radicali, non certo sovversivi. Solo l’allarme su Trump è narrativamente estremo".
Un ’fascista’ da stoppare?
"Il rigore degli storici probabilmente non consentirebbe la definizione. Ma negli Stati Uniti il linguaggio vive di semplificazioni, e per l’americano che si informa, la parola ’fascista’ ben riassume un’ideologia politica autoritaria che, mentre seduce la classe media bastonata dalla globalizzazione, alimenta il suprematismo bianco e visioni distorte. Non a caso il sogno di Trump, smentito dall’interessato ma confermato dall’ex capo staff John Kelly, di avere i “generali che aveva Hitler“ perché “persone totalmente leali“, appare credibile con le suggestioni via via evocate: un’agenda di pura destra sorvegliata dalla parte ultraliberista della Silicon Valley. Il prodotto di queste pulsioni è un candidato che si immagina come il Ceo di un cda devoto al suo carisma. Non certo come il leader rispettoso di un Paese mai così spaccato".