Roma, 23 gennaio 2025 – Può dormire sonni tranquilli, anzi benedetti, Donald Trump. Da un lato, durante la campagna elettorale, in occasione dell’attentato di Butler, “il Signore mi ha salvato per rendere di nuovo grande l’America“, ha ricordato lo stesso tycoon nel discorso d’insediamento a Capitol Hill. Dall’altro, tornato il tycoon alla Casa Bianca, il potente episcopato statunitense è pronto a non ostacolarlo (troppo) nel cammino verso la promessa età dell’oro per sé e gli americani.
Dalla Sala Ovale sin da subito l’Uomo della Provvidenza, copyright di The Donald – un secolo fa anche un maestro elementare romagnolo ebbe ad autocelebrarsi in questi termini –, ha potuto sfoggiare indisturbato la sua retorica aggressiva e accompagnarla da una grandinata di ordini esecutivi che faticano a conciliarsi con il dettato della Bibbia su cui anche Trump ha giurato, al pari di ogni neo presidente di una democrazia d’Oltreoceano dai riflessi teocratici. In spregio al non uccidere del Decalogo ha ripristinato la pena di morte federale; nonostante la Sacra famiglia sia immagine imperitura del dramma dei migranti, ha dato il via a retate mirate contro gl irregolari. Ieri Chicago, domani Los Angeles. Anche le scuole e le chiese non saranno più porti franchi. E ancora, insistendo sullo stesso tasto, il magnate ha cancellato lo ius soli sancito in Costituzione prima che un giudice federale di Seattle gli bloccasse il repulisti. Per i poveri di ogni dove, ha sospeso per 90 giorni i miliardi di dollari in aiuti destinati all’estero, in barba al Discorso della Montagna pronunciato dal Crocifisso dei crocifissi. Infine la decisione d’imporre a tutte a tutti, ermafroditi compresi, il binarismo sessuale, anche se proprio Dio, come ebbe a ricordare un Papa nel 1978, Giovanni Paolo I, è sia padre, sia madre.
In questo contesto roboante di dichiarazioni e azioni, nel quale al tycoon va riconosciuta una biblica coerenza, in prima battuta i vertici della USCCB (United States Conference of Catholic Bishops) non sono andati oltre un generico richiamo: “Prendersi cura di immigrati, rifugiati e poveri fa parte dello stesso insegnamento della Chiesa che ci richiede di proteggere i più vulnerabili, in particolare i bambini non nati, gli anziani e i malati“. Nulla di più, nonostante quattro anni fa, quando a varcare la Casa Bianca era stato il democratico Joe Biden, la stessa conferenza episcopale aveva fatto sin da subito fuoco e fiamme. “Le politiche del nuovo presidente – questa la stoccata dell’allora capo dei vescovi Usa, Jose Gomez, poche ore dopo il giuramento del Comander in Chief – faranno avanzare il male morale e minacceranno la vita e la dignità umana, in maniera più grave in materia di aborto, contraccezione, matrimonio e genere“.
Eppure papa Francesco dal pulpito del programma di Fabio Fazio, Che tempo che fa – vedremo se si ripeterà domenica anche all’Angelus dalla finestra del Palazzo Apostolico – aveva indicato la strada al leader dell’USCCB, l’arcivescovo Timoty Broglio. Trump non aveva ancora giurato (sulla Bibbia) e Bergoglio si era spinto a dire che “sarebbe una disgrazia se manda via i migranti“. Detto e fatto, ma a seguire fermamente il Papa nella condanna sono stati (solo) i soliti nomi del progressismo cattolico statunitense, ben poco rilevanti nelle dinamiche interne dell’episcopato conservatore Usa, dal cardinale di Chicago, Blase Cupich, al vescovo dei migranti, Mark Seitz. Anche il neo arcivescovo di Washington, il cardinale Robert Walter McElroy, su cui coagolano le loro speranze i sempre più marginali liberal cattolici americani, è rimasto silente. Da par suo, solo con il trascorrere delle ore, Broglio ha aggiustato un filo il tiro sugli ordini esecutivi riguardanti i migranti e la pena di morte, definendoli “profondamente preoccupanti” per poi aggiungere che altri provvedimenti “possono essere visti in una luce più positiva, come il riconoscimento della verità su ogni persona umana come maschio o femmina”. Un equilibrismo perfetto.
“In confronto a quattro anni fa la presidenza dell’USCCB ha adottato toni più morbidi verso l’amministrazione in carica, Trump – è l’analisi dello storico Massimo Faggioli, docente al Dipartimento di Teologia e studi religiosi dell’Università di Villanova, Philadelphia –, è stato ignorato in modo evidente che siamo di fronte a un cambiamento dello Stato di diritto e del sistema democratico. C’è una dichiarata soddisfazione per l’abrogazione delle politiche sul gender, ma c’è da chiedersi se non ci sia anche una simpatia per il tono e i modi autoritari del nuovo presidente“.
Un interrogativo agghiacciante – parlandosi di uomini di fede – che ha provato a fugare in qualche modo la Conferenza episcopale italiana, per bocca del suo segretario generale, l’arcivescovo Giuseppe Baturi (“Trump e i migranti? Parlare così degli uomini fa male“). Ma l’Italia è lontana, la Cei non è competente sulle anime d’Oltreoceano. L’unica ad alzare la voce, proprio a Washington, proprio di fronte al presidente Usa, è stata una donna, una vescova episcopaliana. Mariann Budde ha invocato misericordia per gay e immigrati. Ci ha messo la faccia e forse ha salvato la faccia del cristianesimo americano.