Roma, 15 luglio 2024 – L’attentato a Donald Trump quali effetti produrrà sullo scenario internazionale? Andrea Margelletti, 58 anni, esperto di intelligence, strategie militari e geopolitica, invita "a una visione ponderata dei fatti". Per il presidente del Ce.S.I. (Centro studi internazionali) è plausibile "un’ondata di cospirazionismo" e "interpretazioni estremizzate" contro le quali "è necessario mantenere la calma e la lucidità".
A Mosca cosa si pensa in queste ore?
"Si tira un gran sospiro di sollievo perché il candidato preferito da Vladimir Putin è vivo".
Trump è l’uomo ’perfetto’ del Cremlino perché vorrebbe chiudere il conflitto ucraino togliendo le armi a Zelensky e riconoscendo le annessioni di Mosca?
"È su questo scenario che Putin scommette. E non solo. Un’America dilaniata che riattiva le divisioni e polarizzazioni rappresentate dall’assalto del 2021 a Capitol Hill non può che far piacere alla Russia".
Anche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu tifa Trump.
"Non è un mistero. Ma è soprattutto l’Europa adesso a dover accelerare le sue riflessioni".
Su pesi e logiche dell’Alleanza atlantica?
"L’insistenza di Trump sulla necessità che gli alleati europei si facciano carico di una diversa ripartizione degli oneri militari risuona non da oggi nelle capitali del Vecchio continente. E se è vero che il fallito attentato aumenta le possibilità di rivedere Trump alla Casa Bianca, allora l’Europa deve approfondire il confronto interno sulle sue priorità strategiche e militari".
Un quadro realistico?
"Piaccia o no, l’idea che Trump intenda alleggerire il conto degli Stati Uniti è fondata su un dato oggettivo. Solo due paesi su trentadue (Stati Uniti e Canada) sono atlantici. Gli altri 30 sono europei. Ora: se il conflitto più pericoloso è alle porte dell’Unione europea, ci sta che l’Europa ne tragga le conclusioni anziché prolungare la sgradita sensazione di energia insufficiente a gestire le sfide del momento".
Quello a Trump non è il primo attentato (fallito) del periodo. Due mesi fa c’era stato quello al presidente slovacco Robert Fico, altro leader apprezzato da Mosca.
"Ogni attentato fa storia a sé. Per quanto ne sappiamo al momento, Thomas Matthew Crooks, il giovane che ha sparato a Trump, parrebbe essenzialmente uno squilibrato, oltretutto iscritto alle liste degli elettori repubblicani. Un prodotto rovesciato di Capitol Hill. Ma prima di tutto, con ogni probabilità, un mitomane".
Come tanti prima di lui?
"Per fortuna, non tutti i killer o aspiranti killer dei presidenti americani hanno il profilo controverso di Lee Oswald, l’assassino di John Fitzgerald Kennedy. Ricordiamoci per esempio di John Hinckley, che nel 1981 sparò a Ronald Reagan solo perché voleva far colpo sull’attrice Jodie Foster. Il mondo va così".
Può bastare un pazzo a farlo deragliare?
"Sì, e non è certo una novità. C’è gente emotiva che spara semplicemente per finire sui libri di storia".
Razionalmente, quali segnali possiamo cogliere?
"Sul piano elettorale, l’attentato moltiplica la spinta di Trump proiettandolo come candidato di grande forza, al contrario di Biden, nell’ultimo periodo molto fragile".
Invece sul piano mediatico?
"L’aggressività comunicativa del leader repubblicano esce potenziata dallo scampato pericolo. Il candidato insanguinato che, nonostante la perfetta schermatura del Secret Service dopo lo sparo, alza il pugno invitando a combattere, esalta la connessione intima con il suo popolo. Per intendersi: a parti contrapposte (Biden il sopravvissuto), i sentimenti del Presidente e degli elettori democratici sarebbero stati diversi, declinati senza la stessa rabbia. Così oggi la vittoria di Trump è plausibile però non scontata. E una rimonta dem, con o senza un nuovo candidato, non può certo essere esclusa".
Gli Stati Uniti hanno gli anticorpi per gestire la polarizzazione tra le due Americhe da qua al 5 novembre?
"Ora è questa la sfida più grande".