Roma, 28 novembre 2024 – “Il Medio Oriente è una regione tormentata da divisioni di ogni tipo, è stato annunciato il cessate il fuoco in Libano ma non significa che ci sarà la pace, la pace è ben altra cosa, a Gaza le cose sicuramente continueranno, Dio solo sa come…”. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, originario di Cologno al Serio, nella Bergamasca, ma da oltre 30 anni in Terra santa, prima come Custode francescano, poi come arcivescovo della diocesi di Gerusalemme dei Latini, il cuore della comunità cristiana in Israele, è una personalità da sempre apprezzata in un’area dove si cammina praticamente tutti i giorni sulle uova. Fine biblista, conoscitore dell’ebraico, stimato dagli ebrei come dai musulmani, si presenta a Roma per il lancio della prima edizione in arabo della Bibbia cristiana con il volto gioviale di sempre. Quando però gli si parla della tregua scattata sul fronte libanese tra Israele ed Hezbollah, il suo viso muta in una smorfia di scetticismo. E nemmeno vuole parlare delle frasi affidate dal Papa a un libro, sul fatto che si deve indagare se l’uso della parola “genocidio” per quanto stia avvenendo a Gaza, corrisponda effettivamente alla definizione tecnica e che hanno scatenato molte polemiche: “No comment”, dice, “in Medio Oriente certe parole arrivano con un altro effetto, a volte violentissimo, vanno soppesate”.
Eminenza, in che senso la tregua non è la pace?
“La pace si fa con le relazioni pacifiche tra i popoli, non le vedremo presto, in Medio Oriente siamo ancora in una fase di profonda lacerazione, le persone non si parlano più, i rapporti umani sono stati interrotti. Anche sul fronte del dialogo interreligioso siamo bloccati. Troppo profondi i solchi scavati dall’odio, dalle divisioni, dalle ferite, c’è tanto rancore”.
Che cosa la colpisce di più?
“La trasformazione dell’altro in una minaccia, è difficilissimo oggi far passare il messaggio che l’altro è il prossimo che devo servire, l’altro è percepito sempre più in modo disumanizzato, come il nemico che mi minaccia. È qui che si apre un grande lavoro”.
Un lavoro inevitabile?
”Se la pace non la vedremo presto dobbiamo però prepararla perché chi si combatte oggi, dovrà convivere domani. Dobbiamo preparare la pace ricostruendo non solo le strutture fisiche che la guerra ha distrutto ma soprattutto le relazioni”.
Quali tempi prevede?
“I tempi sono lunghi”.
Lei si tiene lontano dalla politica.
“Io parlo di fede. La parola di Dio in questo momento ci potrà aiutare molto perché apre spazi, apre il cuore, quello di cui abbiamo più disperatamente bisogno è dare una chance all’incontro e al perdono. Altrimenti pace non sarà mai”.
La comunità cristiana come sta?
“Soffre. E non da oggi. Vive la difficoltà di pensare al futuro, di dare concretezza alla parola speranza. L’odio e il disprezzo sono all’ordine del giorno e tuttavia le nostre comunità sanno di dover essere capaci di una importante missione verso i nostri fratelli musulmani ed ebrei offrendo loro parole di riconciliazione, di vita, di pace. In questo anno terribile di guerra, ebrei e musulmani non si parlano più ma ci hanno detto, sottobanco, se voi ci aiuterete, se ci siete anche voi cristiani, se resterete, potremo incontrarci, altrimenti no”.