“Quello che sta succedendo in Sudan è anche un side effect, un effetto collaterale della guerra russa in Ucraina". Padre Giulio Albanese, sacerdote comboniano, editorialista di Avvenire e Osservatore Romano , è tra i maggiori esperti italiani di questioni africane. Per spiegare l’ultima crisi sub-sahariana, invita a inserirla in un contesto globale.
Padre Albanese, che cosa sta succedendo in Sudan?
"Da tanti anni il Paese – che ha un’età media di 21 anni – anela alla democrazia, alla partecipazione attiva. Ma ciò non è mai avvenuto: tutti i personaggi che dall’indipendenza in poi hanno occupato le stanze dei bottoni non hanno fatto nulla in questa direzione. Inoltre ci sono sempre state spinte islamiste e il Paese è profondamente segnato dal jihadismo: l’ex presidente al-Bashir, il dittatore destituito nel 2019, guidava sostanzialmente una nazione canaglia. L’indipendenza è arrivata il primo gennaio 1956, ma la prima guerra civile era già iniziata nell’agosto 1955".
Dopo le guerre civili e i golpe del passato anche recente, chi sono gli attori in campo adesso?
"Come spesso capita in Africa, la situazione è complessa. E in Sudan lo è ancora di più. Da una parte c’è Abdel Fattah al-Burhan, il capo del Consiglio sovrano, la giunta militare. Dall’altra Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, capo dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) e numero due della stessa giunta. Si sperava che dalle parole e dalle promesse di transizione democratica si passasse finalmente ai fatti, ma la rottura tra i due ha cancellato tutto".
Chi sono i paramilitari di Rsf?
"Sono gli eredi di quei Janjaweed, i “diavoli a cavallo“, che fecero i massacri in Darfur".
Spesso ciò che accade in Africa è legato agli interessi delle potenze straniere. A chi fa gola il Sudan? Chi sta con chi?
"La posizione dell’Occidente rispetto al Sudan è chiara: vuole che vada in porto la transizione verso la democrazia. Ma gli interessi, chiaramente, sono molteplici: fu l’Italia, ad esempio, a scoprire per prima il petrolio".
Ma non c’è solo l’Occidente...
"Certamente no. Hemeti è filorusso, molto amico di Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri di Putin. Subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il signore della guerra sudanese andò in visita a Mosca. Di recente Lavrov ha ricambiato l’omaggio. E da tempo i mercenari del gruppo Wagner si sono stabiliti nel Paese, mentre prima i rapporti militari si limitavano alle forniture di armi. Insomma, anche la crisi sudanese è un side effect della guerra in Ucraina".
In che senso?
"È un effetto collaterale, uno scenario che si è già verificato in altre zone instabili come Burkina Faso e Mali, dove appunto si sono installati i Wagner".
Fin qui la Russia. Ma la Cina, nuova padrona dell’Africa?
"Dagli anni Novanta il Sudan è stato praticamente colonizzato dalla Cina, interessata principalmente al petrolio. Le cose sono cambiate solo un po’ dopo l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, dato che il conflitto aveva danneggiato alcuni impianti e giacimenti in quell’area".
E l’Italia, che appunto scoprì il petrolio in Sudan e ora si riaffaccia sul Corno d’Africa, che ruolo può avere?
"Purtroppo per decenni ci siamo peccaminosamente disinteressati, diciamo che abbiamo riscoperto l’Africa soprattutto per la necessità di petrolio".
La nuova crisi sudanese può avere effetti sulle migrazioni?
"Mi fa ridere quando si parla di immigrazione in questi casi. È chiaro che le situazioni di instabilità accentuano la mobilità umana, ma si tratta di un fenomeno strutturale che bisogna saper governare. Non dimentichiamo che Africa sub-sahariana, Corno e Sahel sono anche le zone più colpite dai cambiamenti climatici. Non c’è alcuna invasione. Il Sudan è solo un luogo di passaggio per chi emigra".