Madrid, 29 aprile 2019 - Tra l'ultimo scorcio del XIX secolo e i primi decenni del XX si sviluppò in Spagna un vivace dibattito sulla hispanidad, sulla chiusura del Paese in una dimensione nazionale o sulla possibilità di una sua proiezione europea o di una ripresa di quella vocazione imperiale frustrata dalla perdita dell’impero coloniale con la proclamazione dell’indipendenza di Cuba e il passaggio di Puerto Rico e delle Filippine agli Stati Uniti. Protagonisti di quella discussione, nata dalla sconfitta nel conflitto ispano-americano e divenuta una specie di "esame di coscienza" collettivo, furono intellettuali riconducibili alla cosiddetta "generazione del ‘98", non perché nati in quell’anno ma perché condizionati nelle loro riflessioni da quel grande evento, la perdita appunto dell’impero, destinato ad avere un preso sui destini futuri e sull’evoluzione spirituale e politica della Spagna. Tra quegli autori vi furono nomi eccellenti del panorama culturale europeo come Angel Ganivet, Miguel de Unamuno, Azorin, Josè Ortega y Gasset, Ramiro De Maetzu.
Quel dibattito mise in luce la particolarità della storia spagnola rispetto a quella degli Stati nazionali europei. Per usare la suggestiva immagine di Ganivet, la Spagna – a differenza, per esempio, della Francia, "nazione continentale" o dell’Inghilterra, "nazione insulare" – è una "nazione peninsulare": una realtà geopolitica nella quale una catena montuosa, i Pirenei, avevano operato da "istmo" e da "muraglia" consentendo invasioni ed espulsioni, ma anche integrazioni e assimilazioni. Al di là delle speculazioni filosofiche e letterarie sulla storia spagnola, rimane il fatto che questa ha avuto connotati e ritmi di sviluppo, a livello politico-istituzionale, del tutto propri. Basti pensare, per esempio, alle pulsioni anarco-sindacaliste più che comuniste nella guerra civile, al franchismo che fu regime più autoritario che fascista, nonché alle modalità di transizione dalla dittatura alla democrazia, alla coesistenza di un cattolicismo rigoroso con una vocazione libertina e antireligiosa. Per non dire, naturalmente, delle sollecitazioni separatiste retaggio del processo di unificazione realizzato a suo tempo dalla monarchia spagnola.
La "eccezionalità" della Spagna rispetto all’evoluzione politica degli Stati europei è la chiave per interpretarne il travaglio politico attuale e, soprattutto, per capire l’emergere di una destra troppo semplicisticamente assimilata a gruppi e partiti populistici europei. Il movimento Vox di Santiago Abscal, nato da una costola del Partito popolare espressione del centrodestra liberal-conservatore, non ha, a livello culturale e ideologico, troppo in comune con i populisti tradizionali. L’opposizione tanto al "sistema delle autonomie" istituito dopo la fine del franchismo quanto alle preteste indipendentistiche di baschi e catalani non assomiglia alle posizioni dei populisti europei che, al contrario, rivendicano una vocazione autonomistica o auspicano un decentramento amministrativo e politico. Anche il suo euro-scetticismo, contrario a crescenti cessioni di sovranità, è in linea con la tradizione liberal-conservatrice dei governi di José Maria Aznar che orientarono la politica estera spagnola verso l’atlantismo a scapito dell’asse franco-tedesco.
E cio è, in fondo, retaggio di quel carattere di "nazione peninsulare" del quale si era parlato a suo tempo. E a tale retaggio si ispira, infine, la posizione sul controllo dei "migranti" con la chiusura dei porti (a suo tempo realizzata tanto dal socialista Zapatero quanto dal popolare Rajoy) e con la apertura a "quote di origine" per persone provenienti da paesi in qualche modo legati alla lingua e alla cultura spagnole. Il futuro della destra spagnola, stando così le cose, sarà sempre condizionato più dalla sua storia, e da quella del suo paese, che non dalle suggestioni o dalle similitudini con movimenti esteri. Anche se si è mossa all’insegna di uni slogan trumpiano: «Hacer Espana Grande Otra Vez», cioè «Rifacciamo Grande la Spagna».