Gerusalemme, 30 marzo 2024 – La mia interprete in Palestina era una giovane e brillante giornalista che ha trascorso quattro anni in Italia. Quando l’Onu nel ’47 stabilì i confini di Israele, i suoi genitori dovettero lasciare il loro villaggio. Mi ha detto che sperano di tornarci. Le ho chiesto se a suo giudizio Israele ha diritto ad avere uno Stato. La risposta è stata: no. Ho incontrato Revital Shamir, la giovane vedova di un ufficiale della riserva che il 7 ottobre è corso in automobile per due ore prima di incontrare i terroristi di Hamas, ucciderne alcuni ed essere abbattuto con un colpo alla schiena. Sua moglie era incinta, quando l’ho incontrata aveva in braccio la bambina di un anno.
Il suo kibbutz – 70 chilometri a nord di Gerusalemme, in piena Cisgiordania (ma gli ebrei la chiamano Samaria) – installato nel ’99 e legittimato solo nel 2021, è una forzatura dei nazionalisti religiosi incoraggiati da Netanyahu a rendere irreversibile l’occupazione di territori palestinesi. Sono quattro case isolate, affacciate su una bella vallata verde. Ho visto una ragazza di 19 anni leggere al sole in tuta mimetica, elmetto e fucile accanto. Sono tutti armatissimi. Quando le ho chiesto perché si siano spinti così avanti, Revital ha accarezzato la testa della bimba e mi ha detto: per difendere la nostra terra.
Nei miei cinque giorni in Israele non ho ascoltato mai la parola pace. Il patriarca Pizzaballa, l’uomo che si è offerto ad Hamas al posto degli ostaggi ebrei, mi ha detto di avvertire odio dappertutto. I "due popoli in due Stati" sono il Sol dell’Avvenire, una ipocrisia diplomatica che – come ha ripetuto Biden – sarà realistica anche per i Paesi arabi moderati solo quando sarà chiarito il ‘dopo Gaza’. Ma finora Netanyahu non ha rinunciato ad abbandonare la Striscia. Vista da vicino, insomma, la situazione è peggiore che vista da lontano.
Le ferite del 7 ottobre – da noi sepolte sotto la strage di Gaza – sanguinano in Israele come non immaginiamo. Il cimitero del rave di Re’im è agghiacciante: centinaia di tombe virtuali con fiori, fotografie e oggetti cari al defunto visitate ogni giorno da parenti, amici, gente che non vuole dimenticare. Il kibbutz di Be’eri, a un passo da Gaza, era un gioiello di convivenza: anima pacifista, giardini dappertutto, ogni giorno ospitava moltissimi lavoratori provenienti dalla Striscia. È stato ripagato con una strage orribile di anziani e di bambini uccisi a sangue freddo. Or Yelin, un sopravvissuto, mi ha accompagnato dentro le case bruciate, dove le camere blindate, costruite per resistere ai missili, non hanno retto ai terroristi. Mai nessun nazista ha fatto a uomini, donne e bambini quel che ha fatto Hamas. Alle manifestazioni del sabato sera per la liberazione degli ostaggi sono imbandite due tavolate: una con tovaglie di stracci, acqua e un biberon per il piccino ancora sequestrato per ricordare la prigionia e accanto una elegante con piatti che recano la scritta: è bello essere tornati a casa.
Ovunque – dai cartelloni pubblicitari ai check in degli aeroporti – ci sono le foto degli ostaggi. Sono stato in due campi profughi palestinesi vicino a Betlemme: si tratta in realtà di città di ventimila abitanti con casette piccolissime e dignitose. Ho incontrato due genitori: a un padre i cecchini israeliani hanno ammazzato il figlio mentre saliva le scale esterne per salire alla sua cameretta, una madre ha perso il suo ragazzo di 14 anni perché – ascoltata alla radio la notizia che gli israeliani erano andati via - ha scostato la tenda della finestra e invece un cecchino, allarmato dalla luce, lo ha centrato alla testa. Ho visto il muro alto alcuni metri e pieno di murales che separa questi campi dal territorio israeliano proibito: non so se sarà mai abbattuto.