Vicenza, 23 gennaio 2025 – Già stufi delle cronache dell’Inauguration Day di Trump, dei primi ordini esecutivi firmati in diretta tivù con tanto di lancio della penna al popolo esultante, delle polemiche sul saluto romano di Elon Musk e relative indignazioni o sul cappello a tesa larghissima di Melania e relativi sospetti (ma sotto c’era davvero lei o una controfigura?), del giuramento sulla Bibbia della mamma, sull’Anschluss di Panama e sulla quarta sponda della Groenlandia, della mappa del mondo che assomiglia sempre di più a quella del Risiko (e qui, consiglio: altro che Groenlandia, nel dubbio occupare subito la Kamchatka)? Stufi anche di quelli già stufi di Trump, grondanti sdegno e sorveglianza democratica, cui si vorrebbe consigliare di non esaurire subito le loro riserve di biasimo, perché davvero per questo Sessantotto al contrario l’impressione è che ce n’est qu’un début?
No, la vera festa da seguire era quella alla pizzeria ‘X Giugno’ di Vicenza, di proprietà del capogruppo FdI in Comune, Nicolò Naclerio, e organizzata da un altro fratello, il consigliere regionale Joe Formaggio, personaggio al cui confronto, quanto a moderazione, Trump è Mariano Rumor (di Vicenza anche lui, a ben pensarci). Cosa ci siamo persi, invece di stare incollati davanti all’ennesima maratona Mentana. Informa una strepitosa cronaca del Giornale di Vicenza che la pizzeria era affollata di fan italiani, americani e italoamericani, del resto in zona c’è una grande base militare Usa, che Formaggio indossava un cappellino con la scritta Viga (eventuali refusi potrebbero risultare disastrosi, però), acronimo di “Vicenza grande ancora” ispirato al ‘Maga’ di “Make America great again” e che un imprenditore orafo locale ha commissionato dodici bottiglie di prosecco con l’etichetta lavorata in oro a ventiquattro carati da spedire come omaggio alla Casa Bianca.
C’era anche, cito, “la showgirl Michela Morellato”, apperò. L’ammirazione per Donald è così forte da arrivare all’antropofagia, come quando diciamo “ti mangio di baci” al pupo o, meglio, al gatto. È stata infatti servita una “pizza Trump” che ne riproduceva il ritratto. Ri-cito: “La crema di zucca per i capelli; il radicchio di Treviso per la giacca; il pomodoro per la cravatta; il prosciutto cotto per il viso; le olive per gli occhi e il salamino piccante per la bocca”. Si ride (forse per non piangere), però la festa di Vicenza e gli altri tripudi di trumpiani nostrani ripropongono un vecchio, irrisolto problema degli italiani, media compresi, quando si occupano, per fortuna poco, di ciò che succede fuori dai sacri confini. Quello, cioè, di darne sempre un giudizio ideologico, a seconda dell’affinità politica fra i protagonisti stranieri e indigeni. Gli eterni dualismi italiani, destra-sinistra, guelfi-ghibellini, Coppi-Bartali, Callas-Tebaldi, bagno-doccia, Juventini-tutti-gli-altri, usati come bussola per orientarsi nel mondo, che non solo è vasto ma è anche sempre più complesso.
Da Meloni a Formaggio, nel supermarket delle valutazioni non dovrebbe contare l’ideologia di Trump, ma quel che farà. E qui francamente le previsioni per l’Europa e l’Italia non sono molto fauste. A cominciare dalla questione dei dazi, che per ora hanno colpito le importazioni da Messico e Canada, ma nel futuro prossimo potrebbero gravare sulle nostre. Il cronista del GdV lo fa notare a Formaggio. Ecco la (non) risposta: “Come lui vuole proteggere i prodotti statunitensi, così noi dobbiamo difendere le nostre industrie e le nostre botteghe”, boh.
Il punto è che se la politica doganale di Trump farà impennare dall’altra parte dell’Atlantico il prezzo di piastrelle, vestiti, Ferrari, mozzarelle e, appunto, prosecco, dalla parte nostra saranno dolori. Idem se dovremo iniziare a provvedere da soli a una difesa di cui finora si è fatto carico lo zio Sam, con relative spese e rischi. Questi, pensiamo noi ingenui, sono i veri interessi nazionali, non le carrambate di Musk o gli slogan prêt-à-penser su cui stiamo disputando da giorni. Che pizza, appunto.