Roma, 18 marzo 2025 – Dopo quasi due mesi di cessate il fuoco Israele ha rotto la tregua a Gaza, riprendendo le operazioni militari. Secondo i media ci sarebbero già centinaia di morti, vittime dei bombardamenti dell’Idf sulla Striscia. Ma perché Netanyahu ha deciso di far ripartire la guerra? E, soprattutto, perché proprio ora? Che la tregua stabilita il 19 gennaio posasse su basi fragili era purtroppo sotto gli occhi di tutti. L’annunciato accordo in tre fasi di cui Trump si era arrogato il merito pareva fin da subito troppo ambizioso, difficile era già giungere al secondo stadio. I segnali di tensione degli ultimi giorni, poi, lasciavano presagire che la situazione potesse degenerare.
Il premier di Tel Aviv ha giustificato l’offensiva facendo riferimento al "ripetuto rifiuto" di Hamas di "rilasciare gli ostaggi” e di accogliere “tutte le proposte ricevute dall'inviato del presidente Usa, Steve Witkoff, e dai mediatori". Israele ha avvisato la Casa Bianca prima di procedere, con gli Stati Uniti che ora accusano i miliziani palestinesi di aver “scelto la guerra”. Queste le motivazioni ufficiali. In realtà, come riporta il Guardian, le ragioni della rottura della tregua sarebbero molteplici.
Perché proprio adesso
Netanyahu avrebbe lanciato i raid anche per rinsaldare il rapporto con l’ala destra di governo. Alleanza che aveva mostrato più di una crepa dopo il cessate il fuoco. Ma non solo, perché il premier di Tel Aviv sta anche affrontando un procedimento per corruzione. Se dichiarato colpevole, rischia di finire in carcere. Secondo i media israeliani, oggi il tribunale ha approvato una richiesta, inoltrata dai legale di Neatanyahu, di non comparire in aula "a causa della ripresa della guerra”. Anche il timing non è casuale. Persino le truppe dell’Idf chiedevano riposo e, soprattutto, servivano munizioni per gli attacchi. C’era poi bisogno di tempo per individuare i nuovi leader di Hamas che, nel frattempo, si è riorganizzata e ha reclutato migliaia di uomini. Insomma, stando alle interpretazioni degli analisti internazionali, una soluzione pacifica di medio e lungo periodo non è mai stata tra le opzioni percorribili per Netanyahu. Che, probabilmente, aveva già fatto partire il conto alla rovescia per il ritorno alle ostilità lo scorso 19 gennaio.

Le tensioni con Houthi e Iran
La portavoce di Donald Trump, Karoline Leavitt, ha chiarito in tv che “gli Houthi, l'Iran, tutti quelli che cercano di terrorizzare non solo Israele ma anche gli Stati Uniti pagheranno un prezzo, si scatenerà l'inferno". E proprio i ribelli yemeniti sono stati i primi a condannare la ripresa dei raid su Gaza, annunciando una escalation degli attacchi nel Mar Rosso a sostegno dei palestinesi. La posizione degli Houthi chiama in causa indirettamente Teheran che, da anni, è accusato di supportare il loro “Consiglio politico supremo”. E lo stesso Iran, nel condannare i nuovi attacchi israeliani sulla Striscia, tira in ballo gli Stati Uniti, additandoli come responsabili della "continuazione del genocidio”.
Hamas ha immediatamente condannato la mossa di Netanyahu, accusandolo di sfruttare il conflitto come “ancora di salvezza” politica di fronte alle pressioni e alle crisi interne. Nelle mani dei miliziani ci sono ancora 59 ostaggi, di cui 22 si ritiene siano ancora in vita, che Israele – sempre secondo l’organizzazione palestinese – con la rottura della tregua avrebbe deciso di “sacrificare”, imponendo loro una “condanna a morte”. Una fonte del movimento ha fatto sapere che Hamas "sta lavorando con i mediatori per frenare l'aggressione di Israele".
La situazione in Israele
Nel riprendere le operazioni, militari, Netanyahu ha minacciato: "Le porte dell'inferno si apriranno a Gaza" e Hamas verrà colpita con una forza "mai vista prima" se non rilascera' tutti i rapiti.
L’offensiva ha ricevuto il plauso del leader di estrema destra israeliano Itamar Ben-Gvir, uscito dalla coalizione di governo a gennaio proprio in opposizione all'accordo di cessate il fuoco. Per il leader di Otzmah Yehudit, la ripresa della guerra è "il passo giusto, morale, etico e più giustificato per distruggere Hamas e riportare indietro i nostri ostaggi".
Il rovescio della medaglia riguarda l’opposizione interna a Netanyahu, spinta da un’opinione pubblica alquanto sensibile sul tema ostaggi. Recenti sondaggi hanno mostrato come il cessate il fuoco finalizzato alla loro liberazione raccolga il consenso della maggior parte degli israeliani, sebbene il desiderio di una “vittoria totale” su Hamas rimanga prevalente.
Un gruppo di famiglie dei prigionieri ha già fatto filtrare la propria preoccupazione, sostenendo che la loro “più grande paura si è arrivata” e che Tel Aviv “ha scelto di rinunciare agli ostaggi”. Netanyahu “fermi l’uccisione dei nostri cari”, l’appello delle famiglie al premier. Per oggi e domani erano già organizzati raduni di protesta che potrebbero vedere ora aumentare significativamente la partecipazione.
Ma una via d’uscita dal conflitto, almeno nel breve periodo, non sembra nei piani. Secondo la Cnn quello che manca è “un presidente degli Stati Uniti disposto a persuadere Netanyahu, anche a costo di non riuscirci, a moderare le sue azioni”.
Pressioni politiche a parte, Israele ha lanciato una massima allerta per eventuali ritorsioni, anche se l’Idf ha fatto sapere che nella “maggior parte delle aree" del Paese "non c'è una minaccia immediata, ma tutti i cittadini devono essere pronti ad agire in ogni momento, non solo nelle zone di confine", come spiega al sito di notizie Ynet il portavoce Chilik Soffer. "Suggerisco di preparare i rifugi in tutto Paese - aggiunge - Non sappiamo cosa ci riserverà il domani".