Lunedì 3 Marzo 2025
REDAZIONE ESTERI

L’83% dei giapponesi a favore della pena di morte nonostante lo scandalo Hakamada

L’ultimo caso giudiziario che ha visto un 88enne assolto dall’accusa di strage dopo 46 anni dalla condanna non pare aver smosso le coscienze dei giapponesi

Iwao Hakamada (Afp)

Iwao Hakamada (Afp)

Roma, 3 marzo 2025 – Il Giappone non è pronto a lasciarsi alle spalle la pena di morte, nonostante l’ultimo scandalo giudiziario che ha visto Iwao Hakamada, 88 anni, assolto dall’accusa di strage dopo aver ingiustamente trascorso 46 anni nel braccio della morte. Lo dice un sondaggio commissionato dal governo di Tokyo: l’83,1% della popolazione giapponese è ancora favorevole alla pena capitale, a dispetto dei numerosi appelli di Amnesty International che accusano il governo giapponese di portare avanti un sistema brutale e negligente dei diritti umani. 

La pena di morte in Giappone 

Il tasso di criminalità in Giappone è alquanto basso se messo in comparazione con altri paesi dagli standard socio-economici simili. Eppure, secondo un report di Amnesty International, dal 2006 le sentenze alla pena capitale hanno visto un preoccupante incremento. Le esecuzioni sono particolarmente crudeli e avvengono per impiccagione. Non solo, i prigionieri scoprono che saranno portati al patibolo appena due ore prima e gli viene negata qualsiasi comunicazione con i propri avvocati o, addirittura, con la famiglia (quest’ultima informata della morte del parente solo a esecuzione eseguita). Inoltre, si critica al governo giapponese di non operare distinzioni tra i detenuti con infermità mentali e chi ha agito nel pieno delle proprie capacità cognitive. Il risultato è che possono essere mandati a morte soggetti instabili, non in grado di comprendere la portata delle loro azioni e le conseguenze che stanno per investirli. In caso di errori giudiziari, anche uomini e donne innocenti rischiano l’impiccagione, come ci ricorda la vicenda di Iwao Hakamada. 

Iwao Hakamada, 46 anni in isolamento 

Iwao Hakamada lavorava presso un produttore di miso quando, nel 1966, è avvenuto il delitto che gli è costato 46 anni della sua vita. Una vicenda inquietante balzata alla ribalta delle cronache: il capo dell’azienda fu assassinato con tutta la sua famiglia nella sua casa, poi incendiata dal responsabile della strage, probabilmente nel tentativo di far perdere le proprie tracce. Quel giorno Hakamada era uno dei volontari che aiutarono a spegnere il fuoco: a tradirlo furono una piccola quantità di sangue e benzina trovati su un pigiama di sua proprietà. Prove dalla dubbia provenienza, ma che contribuirono a farlo condannare anche a seguito di una controversa confessione. Solo nel 2014 sul caso Hakamada si è avviato un nuovo processo, dopo che il tribunale distrettuale di Shizuoka ha sollevato sospetti sulla possibile falsificazione delle prove. A quel punto anche le dichiarazioni dell’uomo sulla sua presunta colpevolezza sono state giudicate non attendibili. Sono emersi i racconti delle torture subite per estorcere la confessione. Gli agenti di polizia lo avevano praticamente costretto a firmare l’ammissione di colpa mentre gli torcevano il braccio e lo prendevano a calci.

Nel 2024, Hakamanda è stato dichiarato non colpevole dopo che il suo sangue è stato confrontato con un campione prelevato dalla maglia dell’assassino e i risultati dei test hanno escluso la compatibilità tra il suo Dna e il sangue dell’omicida. 

Sempre di più i favorevoli alla pena di morte

Ma il caso Hakamada non sembra aver mosso più di tanto le coscienze dei giapponesi. Anzi. L’ultimo sondaggio ha rivelato come l’83,1% sia pro pena di morte, un dato in aumento se si considera che nel 2019 era del 79,8%. I motivi dietro questo consenso dilagante sarebbero da ricercare nella preoccupazione degli intervistati verso i sentimenti delle famiglie colpite dalle tragedie e verso il timore che un’abolizione possa portare a un aumento dei crimini violenti