La Russia avvisa l’Europa. Le capitali dei Paesi europei dell’alleanza atlantica sono "bersagli potenziali". Dopo l’ufficializzazione, al termine del vertice Nato di Washington, del dispiegamento di missili a lungo raggio americani in Germania a partire dal 2026, è il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov a contrattaccare: "Gli Stati Uniti – le sue parole in un’intervista alla tv russa – hanno schierato una varietà di missili di diversa gittata in Europa, che sono tradizionalmente puntati sul nostro Paese. Di conseguenza, il nostro Paese ha designato le località europee come obiettivi dei nostri missili. Abbiamo già sperimentato, abbiamo abbastanza capacità di deterrenza". E "le potenziali vittime – chiude il portavoce di Vladimir Putin – sono le capitali di quei Paesi". L’intervista di Peskov segue la precedente dichiarazione di "pericolosa escalation" e l’annuncio che la Russia considera necessarie "misure ponderate, coordinate ed efficaci per contenere la Nato".
L’aggressività della narrativa di Mosca, finalizzata a disorientare le opinioni pubbliche occidentali, è tuttavia temperata dal mantenimento di uno stabile canale di dialogo con Washington. Il colloquio di ieri con il capo del Pentagono Lloyd Austin, chiesto dal ministro della Difesa Andrei Belusov "per prevenire minacce alla sicurezza e ridurre il rischio di una possibile escalation", ben rappresenta questo sperimentato doppio registro. La crescente contrapposizione con l’Occidente viene peraltro alimentata dalla Russia anche con una legislazione interna di propagandata autotutela. Prova ne sia la legge appena varata per impedire ai parlamentari di andare all’estero senza autorizzazione: teoricamente, per evitare "azioni penali illegittime in giurisdizioni ostili", con rischio di "arresti o sanzioni"; più probabilmente, per mantenere un ferreo controllo su tutto e tutti.
Tornata da Washington soddisfatta per l’allineamento dell’Italia ai partner Nato, sia a contrasto delle minacce russe sia a supporto della resistenza ucraina, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni deve fare i conti con la plateale ed esibita dissonanza leghista: dal macro (le forniture di sistemi di difesa antiaerea a Kiev) al micro (il fastidio di sindaci e amministratori veneti per il rifornimento di missili a corto raggio V-Shorad alla brigata Usa di stanza a Vicenza). Così il "malcontento percepibile" nella base del Carroccio per la continua "rincorsa agli armamenti", pur nell’ambito degli accordi internazionali, si salda, come rivendicato venerdì dal vice segretario Andrea Crippa, con la totale assenza di sforzi "negoziali" per "la pace". Insomma, tra il vicepremier e leader leghista Matteo Salvini e la premier Giorgia Meloni, se non è rottura poco ci manca.
Anche la difficile chiusura del cerchio europeo attorno al possibile bis in Commissione di Ursula von der Leyen genera attriti in quantità industriale. Salvini, attraverso il nuovo gruppo dei Patrioti, spara a zero sulla candidata di Ppe (inclusa Forza Italia), Pse (col Pd), liberali. Meloni tratta invece il sostegno a von der Leyen in cambio del rispetto dovuto a "un Paese fondatore" (vedi nomina di un commissario di peso). Manovra doppiamente complicata perché, per proteggersi dalla presenza di franchi tiratori di maggioranza, la commissaria uscente sta corteggiando i Verdi (53 voti) anziché la truppa di FdI rappresentata dalla premier (24 voti). Giovedì il verdetto a scrutinio segreto.