Roma, 29 giugno 2024 – “Non ha capito la differenza tra l’Italia e la maggioranza". E adesso potrebbe accadere che Ursula von der Leyen e le componenti del Ppe più favorevoli all’integrazione della destra di governo italiana nella maggioranza europea "si ricompattino e si arrocchino" a scapito non solo dei conservatori europei di Ecr guidati da Giorgia Meloni, ma del nostro Paese.
Perché al dunque il risultato dell’astensione sulla candidata alla presidenza della Commissione von der Leyen e il voto contrario sull’Alta commissaria Kaja Kallas e sul presidente del Consiglio Antonio Costa condanna la premier a un negoziato tutto in salita con la maggioranza popolar-socialista-liberale e i grandi paesi fondatori. A meno di non imbarcarsi nel tentativo, tutt’altro che scontato e senza rete, di provare a affondare la candidata presidente nel voto parlamentare del 18 luglio. Al Quirinale serpeggia un tale malumore per l’esito del Consiglio europeo che vige una ferrea consegna del silenzio. A cominciare dalla chiamata in causa del Capo dello Stato riguardo le modalità dell’inchiesta di Fanpage andata di traverso alla premier e al suo partito, riguardo cui dal Colle s’imbavagliano giurando: "Non una parola". Questo mentre la trattativa sul ruolo e gli incarichi del commissario italiano si fa sempre più complicata e in salita, anche se i tempi per l’incarico in realtà si protraggono fino all’autunno rispetto al via libera a von der Leyen di metà luglio. Un’agenda che complica a sua volta la situazione.
L’Italia punta a un ruolo economico di primo piano – dalla concorrenza e il commercio ai fondi di coesione ai servizi finanziari e anche la difesa – e ovviamente a una vicepresidenza esecutiva, come è sempre accaduto in passato salvo che nell’ultimo quinquennio, quando si credeva che l’incarico all’economica per Paolo Gentiloni fosse in realtà più consistente di quanto non si sia dimostrato. Ma il puzzle degli incarichi europei in realtà è molto più complicato rispetto ai ministeri italiani e la composizione del quadro sarà lunga. Il punto è in primo luogo politico, e passa dal voto a von der Leyen del 18 luglio. Dopo che Mattarella si era speso nella rivendicazione di un imprescindibile ruolo di primo piano per l’Italia, Paese fondatore dell’Unione, autorizzando persino il governo a rilanciare le sue dichiarazioni, Meloni avrebbe avuto il destro per le proprie rivendicazioni rispetto alla mediazione tra Ppe, Pse e Renew Europe e ancor più alla prepotenza franco-tedesca. Non solo l’Ungheria di Viktor Orban, ma "anche la Romania e altri tre o quattro Paesi più piccoli" hanno infatti sollevato obiezioni. Sennonché la premier, dopo aver taciuto per tutta la prima parte della discussione dedicata alle questioni di contenuto e programmatiche della prossima Commissione, si sarebbe impuntata a rivendicare non tanto il ruolo del nostro Paese, ma quello dei conservatori di Ecr. E questo avrebbe provocato l’unanime levata di scudi politica che ha lasciato isolata Meloni, eccezion fatta per il solo Orban. Insomma: l’intervento di Mattarella era stato calibrato per spianare la strada sul ruolo dell’Italia, ma invece la premier l’ha buttata sulla rivendicazione politica per Ecr. Un errore imperdonabile e anche grossolano. Figlio forse anche del nervosismo dovuto alle rivelazioni di Fanpage, che hanno fatto il giro del web e probabilmente anche delle cancellerie. A questo punto però il rischio è che lo stesso Ppe si ricompatti, considerato che la stessa strategia di allargamento a destra era finalizzata a riguadagnare centralità a scapito dei deprecati Verdi. Invece Meloni si rendeva necessaria propria per arginare il rischio di dispersione dei voti popolari, ai quali si potrebbero comunque aggiungere la componente più atlantista dei Verdi e persino altri gruppi progressisti. Come accadde quando il M5s votò von der Leyen proprio in funzione anti-destra e spianando la strada al Conte 2. Schema che non si esclude possa ripetersi.