Lunedì 26 Agosto 2024
RAFFAELE MARMO
Esteri

L’analisi di Minniti: "Rischio guerra mondiale. Stiamo danzando sul ciglio del burrone"

Il numero uno della Fondazione Med-Or: nessuno vuole un conflitto globale. "Ma è possibile che un errore scateni l’effetto scintilla come nel 1914. Zelensky parla con Cina e India, attacca il Kursk: svolta per il futuro negoziato"

Roma, 27 agosto 2024 – Il fallimento dei negoziati del Cairo per la tregua in Medio Oriente, la nuova ondata di attacchi della Russia sulle città ucraine, gli Stati Uniti nel pieno di una delle più decisive campagne elettorali: che cosa stiamo rischiando?

"Abbiamo due conflitti in corso, uno nel cuore dell’Europa e un altro nel cuore del Mediterraneo. Il rischio dell’effetto scintilla o il rischio dei “sonnambuli” è altissimo". A spiegare come e perché "stiamo danzando sul ciglio di un burrone" è Marco Minniti, ex ministro dell’Interno, a lungo guida politica della nostra intelligence, oggi numero uno della Fondazione Med Or, il più autorevole think tank italiano di analisi strategica.

Marco Monniti, presidente della Fondazione Med-Or
Marco Monniti, presidente della Fondazione Med-Or

Teme un intervento della Nato dopo gli appelli di Zelensky?

"No, una cosa è il sostegno politico e militare della Nato, che è stato confermato pur con tutte le contraddizioni che riguardano il domani, altra cosa è un coinvolgimento diretto. Sarebbe la terza guerra mondiale. Il timore è un altro".

Quale?

"Non dimentichiamo che stiamo danzando sul filo del rasoio perché il rischio di una precipitazione, purtroppo, c’è sempre. Non perché qualcuno la voglia ma perché il pericolo di errore è altissimo. Come lo è quello del sonnambulismo delle leadership che portò alla Prima guerra mondiale".

A che cosa si riferisce?

"Lo descrive bene Christopher Clark nel bellissimo libro The Sleepwalkers: How Europe Went to War in 1914 , in cui spiega come gli Stati europei precipitarono in maniera preterintenzionale nella Prima guerra mondiale. Nessuno voleva la guerra, solo che ogni Stato era prigioniero delle sue radicalità, fino alle estreme conseguenze, senza mettere nel conto la guerra, che, invece, arrivò".

Perché non si riesce, per cominciare, a fermare la guerra in Medio Oriente? Perché falliscono i negoziati?

"La verità vera è che in questo momento in Medio Oriente si misurano tante debolezze del terrore, nel senso che nessuno vuole un conflitto più ampio: l’Iran, come Hezbollah in Libano, sa perfettamente che non può permetterselo. Non sono pronti perché questo comporterebbe un collasso delle rispettive sovranità. Il che ci dice che anche negli ambienti più estremisti funziona la realpolitik. E tuttavia quella stessa realpolitik non riesce a pensare a un piano positivo. Dunque, quelle leadership da un lato devono evitare un conflitto più ampio, dall’altro non possono liberarsi dall’abbraccio mortale delle componenti più radicali. È la trappola delle identità".

Lo stesso vale, in qualche modo, anche per Israele?

"La difesa di Israele non è in discussione. E la risposta preventiva non è la quintessenza della capacità militare di reazione da parte di Israele, ma è un principio costitutivo di quello Stato. Sta nella sua constituency. L’espressione Rise and Kill First , “Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo per primo”, non è una dottrina militare, è nel Talmud. Un altro conto, questo sì discutibile, è valutare l’azione dell’attuale leadership israeliana".

Quale è la sua valutazione?

"La leadership israeliana, profondamente divisa, è condizionata dal fatto che la prosecuzione del conflitto non solo garantisce la tutela personale e politica di Netanyahu, ma è la cosa più semplice o meno impegnativa da gestire. La leadership attuale non ha la forza di presentare al popolo israeliano un piano di uscita dal conflitto. Fino a tre mesi fa Netanyahu era precipitato nei sondaggi, dopo l’attacco iraniano è risalito. Eppure, sono note le ombre su di lui. Ma è evidente che pensa che il conflitto gli consente di sopravvivere come leadership politica".

Il risultato è la prosecuzione della tragedia mediorientale.

"La debolezza del terrore sta soffocando il Medio Oriente. Sullo sfondo delle oltre 40mila vittime civili a Gaza e della dilaniante questione della sorte degli ostaggi".

L’Ucraina è l’altro, devastato, campo di battaglia.

"Non si intravede una soluzione e anzi siamo di fronte a un’escalation militare. E, tuttavia, ritengo che l’operazione militare su Kursk sia del tutto legittima. Nel momento in cui un popolo è impegnato da trenta mesi in una drammatica guerra di logoramento sul proprio territorio, il fatto che a un certo punto ci possa essere un’operazione che manifesti la fragilità e la debolezza del tuo nemico lo considero un atto legittimo e anche intelligente tatticamente".

A che cosa punta Zelensky?

"C’è una conferma dell’impegno occidentale, ma è una conferma sempre più avvolta nelle ombre del domani (esito elezioni Usa, possibile dimezzamento degli aiuti tedeschi). Zelensky ha preso questa iniziativa perché ha capito che potrà trovarsi in uno scenario in cui potrebbe essere costretto a discutere e negoziare con la controparte russa. E lo vuole fare da posizioni non di debolezza. Al punto tale che Putin, pur aggredendo Kiev e l’Ucraina con gli attacchi aerei, ha annunciato che l’operazione per riprendersi Kursk si farà solo entro ottobre: un segno di debolezza. Ma non c’è solo questo nella svolta di Zelensky".

Nel senso?

"Nella prospettiva di una futura negoziazione con Mosca, ha mandato il Ministro degli Esteri in Cina e ha spiegato che accetterebbe la mediazione di quel Paese. Ha ricevuto a Kiev il leader indiano Modi, che ha manifestato una grande empatia per la causa ucraina. Stiamo parlando di due Stati “amici” della Russia. Il punto è che Zelensky pensa che per avviare un processo di pace in Ucraina non si può fare a meno del Sud del mondo, chiunque vinca in America".

È una svolta che pochi hanno visto. Che cosa può fare, allora, l’Occidente per fermare i sonnambuli?

"In questo mondo che è sempre più apolare, senza univoci punti di riferimento, e sempre più animato da cooperazione e competizione, al punto tale che la competizione prevede anche il conflitto militare, la saggezza delle democrazie liberali e dell’Occidente deve essere quella di ampliare la cooperazione e governare la competizione".